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“Per risollevare l’export servono politiche per i giovani e le medie imprese”. Intervista a Giuseppe Russo

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Rapporto sbilanciato tra giovani e anziani, scarsità di medie imprese e poco investimento in settori strategici. Secondo Giuseppe Russo, direttore del Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, sono i tre motivi per cui l’export piemontese è crollato del 5.8% nel primo trimestre del 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019, come hanno mostrato i dati pubblicati lo scorso 11 giugno da Unioncamere Piemonte. Per recuperare la distanza con le altre regioni del nord Italia servono politiche che favoriscano i giovani, gli stranieri e le medie imprese, gli elementi più dinamici dell’economia.

Storicamente il Piemonte è regione esportatrice, ma da alcuni anni c’è una flessione. Cosa sta succedendo nell’export piemontese?

Negli ultimi anni c’è stata una riduzione importante del settore autoveicolare, sia l’esportazione di automobili finite che di parti che poi venivano montate in altre autovetture. Ben prima che iniziasse la crisi del Covid, l’industria automobilistica è entrata in una fase di stallo e questo ha frenato il Piemonte prima di altri. Dal momento che sono esportazioni anche le parti destinate agli stabilimenti FCA nel mondo, realizzate in Piemonte, un caldo di domanda di automobili in altre parti del mondo ha ridotto anche la nostra importanza.

Il secondo motivo è che ci siamo allontanati come sistema territoriale dalla velocità di crescita propria del nord-Italia. Il nord esprime oggi due velocità, una in Lombardia e nord est e una ridotta in Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. È uno sgranamento che si riflette in tutta l’economia, anche nelle esportazioni.

Storicamente questo differenziale di crescita è stato tra nord e sud, ma dall’ultima crisi se n’è aperto uno tra le regioni del nord. Il nord est e la Lombardia hanno avuto una dinamica di ripresa più accentuata, recuperando i livelli precedenti, mentre Piemonte e Liguria si sono allineati alla media nazionale.

 

Quali sono le cause di questa perdita di dinamismo?

Sono essenzialmente tre.

La prima dipende dal fatto che Piemonte e Liguria hanno una società che esprimere un rapporto tra giovani e anziani più sfavorevole alla crescita. Ci sono molti anziani sulle spalle dei più giovani, che dovrebbero essere le generazioni che spingono la crescita economica. Credo addirittura che Torino sia una dei capoluoghi più vecchi di tutto il continente, come rapporto tra giovani e anziani.
Questo rallenta la formazione del capitale umano, che oggi è essenziale in tutte le attività economiche.

Il secondo elemento è la relativa inferiore diffusione dell’industria media, quella sopra i 250 dipendenti, che è estremamente dinamica dal punto di vista del tasso di crescita della produttività e del valore aggiunto. La densità di queste imprese favorisce il nord rispetto al sud ed è molto più accentuata in Lombardia che in Triveneto. Di solito si pensa che il dinamismo sia dovuto alle start up, ma invece si vede meglio attraverso la lente delle medie imprese, che danno occupazione a più persone.

Il terzo fattore è che, pur avendo una struttura industriale importante nei settori a più alta capacità di competizione internazionale, abbiamo ancora un basso livello nei settori importanti nelle società avanzate. Sto pensando al lusso, che non è in Piemonte, e al terziario avanzato, come quello finanziario che privilegia la Lombardia.

Tutto questo ha determinato il rallentamento del Piemonte, ma sono dinamiche che partono da lontano e sono difficili da arrestare e invertire. Avendone consapevolezza, però si può rimediare con determinare politiche sociali.

 

Il Covid ha inciso davvero sui dati strutturali di esportazione o si è aggiunto ad una situazione che stava già volgendo verso un calo in alcuni settori?

Il Covid si è aggiunto e non bisogna pensare che tutto il Piemonte sia rallentato. Esistono aziende molto competitive, ma sono più diluite rispetto ad altre regioni.

Quello che il Covid ha portato è forse una presa di coscienza che il Piemonte ha bisogno di politiche di competitività più vigorose. Ha aiutato a smascherare una situazione che già esisteva e ci ha fatto capire la debolezza del sistema.

 

L’unico settore che non crolla è l’agroalimentare. Questo indica un cambiamento nella struttura economica del Piemonte?

L’italian food è uno dei settori che abbiamo scoperto nell’ambito del made in Italy e fa parte dello stile italiano di vivere. Abbiamo un’industria agroalimentare di eccellente qualità e non c’è dubbio che questo abbia inciso. Non sta però cambiando la struttura dell’economia piemontese, ma quello che stiamo vedendo è che in questo momento da solo non basta, ma questo non vuol dire che non si debba essere contenti e fare il più possibile.

 

Turchia, Russia e Corea del Sud sono gli unici stati verso cui il commercio è aumentato, mentre i mercati europei sono stati meno battuti. Dipende proprio da questo cambiamento?

La direzione dei flussi commerciali di solito privilegia le destinazioni vicine. Con il fatto che il mercato unico europeo facilita gli scambi commerciali all’interno del continente, la destinazione naturale delle produzioni italiane e piemontesi è quella vicina. Quando però i mercati di prossimità diventano saturi, se ne cercano altri. A fianco di questo c’è stata una crescita della capacità di esportazione all’estero grazie a Internet. Questo ha determinato il fatto che i mercati vicini hanno assorbito di meno e si è andati a cercare mercati lontani. Ma per vedere se sono diventai mercati stabili con cui commerciare si deve aspettare che questi numeri si assestino.

 

Che genere di politiche e investimenti servono per risollevare l’export?

Bisogna fare politiche ad hoc, che incidano sulla convenienza delle imprese medie ad insediarsi qua e sul miglioramento delle capacità delle imprese di crescere.

Servono innanzitutto politiche di lungo termine per favorire la formazione di nuove famiglie e l’occupazione stabile dei giovani. Questo serve per migliorare il rapporto tra giovani e anziani. Un’altra cosa è immaginare politiche di integrazione degli stranieri che favoriscano la popolazione attiva straniera, giovane, ben formata e qualificata. Sul fronte delle imprese invece non si fa abbastanza per favorire la crescita delle imprese e l’aumento del numero delle medie imprese. Bisogna poi fare investimenti nei settori, come la moda e la finanza, che generano più valore aggiunto.

 

Quale sarà il ruolo di Torino in questo nuovo scenario?

L’innovazione è la direzione giusta, soprattutto applicata in settori ad alto tasso di esportazione e altro valore aggiunto. La situazione sanitaria odierna ha fatto capire ad esempio che la sanità non è solo servizio, ma è anche tecnologia, bioingegneria, ricerca e intelligenza artificiale. Questo sono settori moderni in cui una regione industriale può avere cose da dire strutturando nuovi cluster di imprese.

L’auto invece sta cambiando pelle e Torino deve farlo con lei. Oggi ci sono nuovi contenuti, come le trazioni elettriche, e varie tecnologie che stanno cambiando il prodotto. L’automobile a Torino non scomparirà, ma tutto dipende dall’impegno complessivo di ricerca e sviluppo che si riesce ad investire in quell’area e sono investimenti molto alti. Se c’è una regia ce la si può fare.

 

JACOPO TOMATIS

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