Due anni di didattica a distanza pesano sui ragazzi. Non solo a livello psicologico e di relazioni sociali ma anche su quello formativo. O almeno questo raccontano i Test Invalsi a livello nazionale: esisterebbe una correlazione tra la lunghezza del periodo di chiusura delle scuole e i risultati degli studenti delle grandi città italiane. Dove la didattica a distanza è durata meno, come Firenze e Roma, il calo di risultati è stato più contenuto, viceversa dove la campanella non ha suonato per un periodo più lungo, il crollo è stato rilevante. A Torino ad esempio, il 26% dell’anno scolastico 2021 vissuto dietro allo schermo ha generato un calo dei risultati dei test invalsi del 2,4% rispetto a quelli eseguiti a giugno 2019. Il capoluogo piemontese si colloca al sesto posto tra le 15 città metropolitane per quanto riguarda i punteggi medi delle prove Invalsi della quinta elementare, al settimo per quelli di terza media e al quinto per quelli di quinta superiore. Di contro si è registrato un generalizzato aumento dei voti.
Al di là della miriade di dubbi riguardo l’opportunità e il senso di considerare questo tipo di test un serio indicatore del livello di preparazione degli studenti, è interessante l’analisi del difficile difficile tra scuole e tecnologia nel nostro Paese. Accanto alle difficoltà di concentrazione che si riscontrano seguendo le lezioni a distanza, un dato rilevante è l’accesso alle risorse tecnologiche, limitato sopratutto per le famiglie che vivono in zone rurali. I bonus economici introdotti dai governi che si sono susseguiti negli ultimi due anni per permettere ai ragazzi di dotarsi di apparecchi tecnologici non sembrano aver sortito gli effetti sperati, e il ventiduesimo Rapporto Rota su Torino elaborato dal Centro Einaudi racconta come nella città metropolitana circa uno studente su tre, di medie e superiori, sia stato costretto a seguire le lezioni da smartphone. Le diseguaglianze educative sono un fenomeno già preoccupante, ma viste queste premesse nel medio periodo potrebbero divenire più ampie e lasciare indietro moltissimi ragazzi. Forse è anche per questo che in città il modo di studiare non è cambiato. Il 90% delle scuole non ha apportato alcun aggiustamento al proprio piano degli orari, né ha modificato i tradizionali supporti didattici, come ad esempio il ricorso a siti web e piattaforme dedicate: occasione mancata si dirà, ma visti i numeri forse le ragione va ricercata proprio nel tentativo di contenere le diseguaglianze educative.
Malgrado attraverso il Piano nazionale banda Ultra Larga il nostro Paese sia al lavoro per portare la connessione veloce anche nelle zone rurali, i dati sono ancora poco incoraggianti. Stando agli ultimi dati Istat disponibili, nel 2019 erano 523mila le famiglie piemontesi sprovviste di connessione internet a casa, il 26,5% del totale. Ecco che diventa difficile per le scuole utilizzare la tecnologia nella didattica, e una risorsa potenzialmente preziosa diventa una mera trasposizione online di una lezione frontale in aula, con risvolti negativi nella partecipazione e nella concentrazione degli studenti.
Tutto ciò rischia di riflettersi anche in un incremento dell’abbandono scolastico, i cui numeri in Piemonte erano tutt’altro che rassicuranti già prima della pandemia. La regione era la sesta in Italia in questa triste classifica con una tasso di abbandono scolastico dei giovani tra i 18 e i 24 anni del 12%, superata solo da regioni del sud, dove il fenomeno è storicamente più diffuso. Proprio al nord il dato è in crescita, con un aumento di 0,6 punti tra il 2019 e il 2021. Per arginare il fenomeno, occorrerebbe un’analisi approfondita dei problemi e delle dinamiche che i ragazzi fronteggiano sul territorio, ma le rilevazione a livello locale sono ferme addirittura al 2011, un decennio fa. In quel momento nella città metropolitana di Torino si registravano 45 comuni su 315 (il 14,3%) in cui il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni in possesso al massimo della licenza media che non frequentavano alcun corso regolare di studi o formazione professionale era superiore al 20%. D’altra parte però in 71 centri il dato era pari o inferiore al 10%, l’ennesima prova dell’enorme divario che sussiste tra zone urbane e rurali, che con la transizione tecnologica aumenta in modo esponenziale.