La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Giustizia trasformativa e altri rimedi

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Stupro, violenza, criminalizzazione, sono parole dure. Ma c’è chi è riuscita insolitamente ad associarle a concetti dal profilo artigiano come “trama”, “fabbrica”, “tessuto”. Si può parlare di abusi agiti e subiti senza cedere alla tentazione di auspicare una soluzione punitiva, fine a se stessa? Si può pensare di usare mani e parole sapienti per intessere soluzioni che trasformino tutta la società invece che agire solo sulle persone coinvolte in una violenza? Giusi Palomba, autrice del libro La trama alternativa, pensa di sì.

L’ottimismo è un metodo, dice il filosofo spagnolo Paul B. Preciado. Solo applicandolo si può sperare di trasformare il modo in cui socialmente intendiamo la violenza e la giustizia. Giusi Palomba e Tiziana Triana, moderate da Claudia Durastanti, nell’ordine perentorio degli stand del Salone del libro di Torino, sono riuscite ad aprire quella smagliatura necessaria a ripensare il mondo. Nuove parole per nuovi pensieri. E lo hanno fatto affrontando il tema delicato del carcere e della giustizia trasformativa.

Il libro di Giusi Palomba La trama alternativa, edito da Minimum Fax, racconta un episodio di violenza sessuale in cui la sopravvivente decide di optare per un processo di responsabilizzazione del perpetuatore, senza passare per la giustizia tradizionale. L’intera comunità di cui fanno parte la sopravvivente e l’autrice, sottolinea Durastanti, viene coinvolta in un processo di trasformazione lento e faticoso. Questo porta Palomba a riflettere sul male e sulla guarigione personale e collettiva, partendo dalla consapevolezza che qualcosa del modo in cui la società è solita affrontare questi episodi vada cambiato.

La giustizia di cui parla non è definita “riparativa” ma “trasformativa” perché il trauma della violenza strappa il tessuto dell’intera comunità in cui si verifica. A quel punto la riparazione non giova alla guarigione. Bisogna rimboccarsi le maniche e usare le condizioni materiali in cui ci si trova per affrontare quella sofferenza, sia nella dimensione personale sia in quella collettiva. “Lo stupro non è nato adesso, e anche le carceri ci sono da sempre. Evidentemente non è questa la soluzione – dice Triana, della casa editrice Fandango che pubblica titoli a sfondo sociale come Come sono diventata abolizionista. Polizia, proteste e libertà – Quello che succede nelle carceri, anzi, di solito, è contribuire alla violenza delle sopravviventi, non andare a riparare o ricucire la relazione della sopravvivente con il contesto che la circonda”.

Per Palomba bisogna fare emergere il contesto intorno alle persone. La giustizia trasformativa consentirebbe di elaborare il trauma mettendo al centro la sopravvivente e la relazione con la sua comunità. “È questo che è sempre mancato nella rappresentazione del male. Si parla di individui che sembrano concentrare in sé il male assoluto della società. Queste rappresentazioni sono funzionali alla costruzione di una certa società, che deve sempre individualizzare la violenza e sempre puntualizzare che riguarda solo due persone: la persona che l’agisce e quella che la subisce. Le pratiche trasformative reintroducono il controllo su questa trama”.

Se il punto è ricucire lo strappo del tessuto comunitario, oltre a curare il trauma della sopravvivente, il carcere sembra non avere questa funzione. “Quello che l’abolizionismo femminista tenta di fare – spiega ancora Triana – è lavorare su un doppio binario. Risponde alla violenza sul breve termine, perché ovviamente bisogna garantire un luogo sicuro. Non possiamo lasciare la sopravvivente nelle mura dove subisce violenza. Dobbiamo contribuire a creare luoghi sicuri dove tutte le persone possano sentirsi in sicurezza. Ma la sicurezza che intendono le abolizioniste non è la stessa che intende lo Stato. Perché lo Stato quando parla di sicurezza pensa a più polizia e più telecamere. Qui il risultato è solo attaccare persone profilate come criminali. Quello che l’abolizionismo femminista riesce a fare è rispondere sul breve periodo da una parte, pensando alla sicurezza di chi subisce l’abuso, ma dall’altra immaginare un percorso di trasformazione della società intera”.

Si parla di immaginazione, di ricreare narrazioni diverse. Anche in un luogo restrittivo come il carcere, che sembra “connaturato nella nostra società”, e in un ambito dal linguaggio asciutto e perentorio come la giustizia, c’è chi pensa a delle alternative. “C’è una frase di Octavia Butler nel libro che dice: ‘ne usciremo sognando’. Se le cose non riesci a immaginarle non riesci a metterle in pratica”.

Per Palomba l’opportunità di scegliere trame alternative alla “giustizia carceraria” passa anche per la produzione di nuove categorie di pensiero. “Un tema a cui sono molto sensibile è la reinvenzione del linguaggio politico. Altrimenti non abbiamo accesso a tutta una serie di persone che hanno profondamente bisogno della politica, ma hanno sempre sentito che il linguaggio utilizzato non stava parlando a loro. Le persone marginalizzate, poi, non hanno accesso a nessuno dei linguaggio con cui viene comunicata la politica”.

Il pericolo di vivere in una società che prevede strutturalmente la vulnerabilità sociale nel proprio funzionamento è che intere moltitudini non hanno accesso alle opportunità della polis. Così la città diventa uno spazio dal quale difendersi. Palomba ha questa consapevolezza e spiega che nel suo libro voleva mantenere un linguaggio accessibile a più persone possibili, anche a quelle che non si fidano delle istituzioni e che comunque non ricorrerebbero allo Stato per proteggersi dalla violenza di genere.

Molte persone le chiedono: “E della rabbia cosa ne facciamo?”. E la maggiore visibilità della violenza di genere non è un traguardo cui sono disposte a rinunciare. Si è raggiunto anche grazie a movimenti come il #metoo, e rischierebbe di essere oscurato da utopiche fantasie. Ma Palomba pensa che il punto sia proprio questo: “La giustizia trasformativa si occupa di moltiplicare quegli spazi della rabbia in un modo che implica il supporto collettivo”. E Triana aggiunge che per le donne è la realtà la vera distopia. “Abbiamo vissuto per secoli in una società che ci ha marginalizzata, rifiutate, violentate. Tutto quello che è fuori da questo scenario diventa una realtà possibile”. 

[Errata corrige: il titolo Abolizionismo. Femminismo. Adesso è di Edizioni Alegre. Fandango ha pubblicato, sullo stesso tema, Come sono diventata abolizionista. Polizia, proteste e libertà]