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“Il più democratico degli sport: i pedali sono uguali per tutti”

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Un terzo della storia del Giro d’Italia l’ha scritta lui, sulle pagine di Tuttosport. Trenta edizioni al seguito della corsa rosa, e poi una serie interminabile di Tour de France, di Mondiali, di classiche. Il protagonista numero tre dello Speciale Giro100 è Paolo Viberti. “Il ciclismo è il più democratico degli sport”: lo dice ed è come lo scatto, sulle rampe più dure del Giro, di chi vuol mettere subito in chiaro le cose.

Perché è il più democratico?

È l’unica pratica del genere umano in cui la meritocrazia è sovrana. Il più forte va avanti, gli altri stanno indietro. Doping a parte, nello sport è difficile bluffare: se non sei capace o allenato, a certi livelli non ci arrivi. Non esiste “essere figli di”. E poi cancella le differenze di classe: tra i cicloamatori, ad esempio, l’operaio neoassunto dà del tu all’imprenditore. Si pedala insieme, si fatica insieme. E chi fa fatica ha sempre qualcosa da proporti.

Già, il doping…

Il doping c’è in tutte le pratiche sociali: l’attore, il manager, l’avvocato si dopano. Ci sono frangenti in cui è indispensabile essere comunque svegli, reattivi, vigili, forti, nonostante vi si arrivi in periodi non proprio propizi. Basta con l’ipocrisia: il doping non fa parte solo dello sport. Ho visto attori che nonostante la febbre dovevano recitare per forza. Nel ciclismo, poi, si fa una fatica incredibile. Questi atleti sono superman. Gli unici al mondo ad essere costretti, sotto sforzo, a digerire dei solidi. Per questo hanno lo stomaco estroflesso.

Che cos’è il racconto dello sport?

Il racconto diventa appassionante quando chi lo propone vive l’evento con sentimento. Nello sport c’è tutta la filosofia della vita, in maniera molto più lampante di quanto si riveli nella vita stessa.

Come si fa a raccontare il ciclismo?

Con pathos. Un resoconto fatto di sudore, fatica, vomito, tragedia, piaghe, ferite, drammi, che sono aspetti della vita in bici. Ma dobbiamo anche tenere presente che è sport, e quindi dev’essere leggero, divertente. Può insegnarci che nel mondo non ci sono solo Isis, attentati e guerre.

A Oropa ha visto vincere Ghirotto, Pantani, Bruseghin e Battaglin. Qual è stata la tappa più incredibile?

Pantani nel ‘99, sicuramente. A otto chilometri dal traguardo gli scende la catena. Riparte, supera 49 corridori e taglia per primo il traguardo. Ma lì, sotto al Santuario, non alza nemmeno le braccia al cielo. Non sa di aver vinto, in rimonta non ha avuto nemmeno il tempo di capire se davanti c’era ancora qualcuno. Fu una vittoria clamorosa, in un’edizione disgraziata: il 5 giugno a Madonna di Campiglio, il suo Giro finì per quei valori di ematocrito fuori dai limiti.

Ma Oropa è sempre stato un arrivo importante: nel 1993 sentenziò i primi problemi di Indurain, mentre nel 2014 vinse Battaglin, che lasciò intravedere delle qualità che non sempre ha confermato in seguito.

Come pensa che finirà la tappa di sabato?

Sarà una salita vera, anche se non terribile. Credo che vedremo qualcosa di interessante. Quintana può giocarsi la carta Amador, il compagno di squadra che ora è sesto in classifica. Se il costaricano entra nella fuga, Nibali, Dumoulin e Pinot che faranno? Non possono lasciargli troppo spazio. Sarà una tappa strana, piatta per tutto il giorno, con Oropa nel finale.

E chi vincerà il giro?

Le mie percentuali: 30% Quintana, 25% Nibali, 20% Dumoulin, 15% Pinot, 10% gli altri. Quintana in salita è il più forte, Dumoulin ha un buon vantaggio ma non ha una squadra in grado di aiutarlo. Vincenzo c’è, e solitamente fa la differenza nell’ultima settimana. Pinot è un puledrone, ancora un po’ acerbo,  a volte spreca energie.

Quali sono i momenti vissuti in corsa che le sono impressi nella mente?

La morte di Wouter Weylandt, nel 2011. Un ragazzo che in discesa si volta a cercare il capitano alle sue spalle e che quindi, per un eccesso di zelo, non si accorge che la bici declina verso sinistra dove va a toccare il parapetto con il pedale. Si ribalta, colpisce l’asfalto e muore sul colpo. Terribile. Indimenticabile, per altre ragioni, è stata la cavalcata di Chiappucci a Sestriere, al Tour del ‘92. Che impresa.

Qual è il personaggio più affabile che ha incontrato, e quale quello più difficile da raccontare? Perché?

Sono molto amico di Gianni Bugno. Come corridore e come uomo, ha sempre dimostrato grande sensibilità d’anima. E poi Alfredo Martini, per me l’ultimo grande filosofo dello sport italiano. Una figura sempre disponibile: non ha mai fatto pesare la sua notorietà a chi lo intervistava. Il più difficile? Bernard Hinault, tipicamente francese: ostinato, molto pieno di sé, ma un campione.

Il ciclismo è anche il racconto dei luoghi attraversati dalla corsa. A quale è più affezionato?

Credo il Mont Ventoux, il gigante della Provenza: un posto lunare, fuori dal mondo, difficile da raggiungere. Lì ci si sente più vicino a Dio che agli uomini. Un luogo che spinge a pensare a molte cose, dove cresci, conosci.
In Italia ce ne sono molti: il Passo Pordoi, perché mi ricorda Coppi, il Mortirolo per Pantani, lo Zoncolan. In Piemonte amo la Fauniera, sulle Alpi Cozie: in in cima c’è il Colle del Morto, un nome che dice già tanto. Il Giro l’ha scalato una sola volta, nel ‘99, salendo dalla parte di Pradleves. Dopo lo scollinamento, 23 chilometri di discesa difficilissima, stretta, pericolosa, senza protezione. Se sbagli una curva ti ritrovano 800 metri sotto. Paolo Savoldelli fece qualcosa di inenarrabile: prese la discesa un minuto dietro a Pantani: a Demonte, alla fine, era due minuti avanti. Fu lì che si guadagnò il soprannome che lo avrebbe accompagnato per tutta la carriera: il Falco bergamasco.

MARCO GRITTI

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