Spingendo il carrello della spesa tra i reparti del supermercato, si passano in rassegna con un rapido sguardo i prodotti sugli scaffali. Ed eccolo lì, un bel pacco di biscotti al cioccolato, magari in offerta, pronto a tentarci. Accanto a fare capolino un pacco più piccolo e leggero che non attirerebbe l’attenzione se non fosse per quella scritta messa bene in evidenza: “senza olio di palma”. E allora niente più dubbi: lo si prende dallo scaffale e ci sente subito più in forma. Ed è così che il carrello si riempie mano a mano: il caffè senza caffeina, la pasta senza glutine, i dolci senza grassi, la coca-cola senza zuccheri. «Non si compra più il cibo per quello che ha, lo si compra per quello che non ha» dice il professore Peppino Ortoleva intervistato da Carlo De Blasio al Festival del Giornalismo Alimentare nel panel dedicato alle paure e ai miti sulla nutrizione.
Il marketing del cibo “deprivato” lanciato negli anni ’50 negli Stati Uniti ha raggiunto il suo obiettivo: meno ingredienti contiene il cibo, più è richiesto. E’ un marketing raffinato, “medio-borghese” lo definisce Ortoleva, che dà all’acquirente uno status privilegiato, la sensazione di saperla lunga in materia di alimentazione. Perché? Secondo il professore c’è un padre di tutti i miti e di tutte le paure alimentari: l’umanità sta andando incontro ad un avvelenamento collettivo. Non più confinato alle sole nazioni, il mito dell’avvelenamento si è espanso a tutte la specie, si è “globalizzato”. E da Lucrezia Borgia in poi, la cospirazione è avvertita in ogni angolo.
Il cibo è essenziale e allo stesso tempo temuto, un po’ come i vaccini. Così si diffondono le paure più comuni: che mangiando Ogm si possano avere delle mutazioni genetiche, che solo l’olio di palma sia dannoso per la deforestazione del pianeta (e il caffè?). Ma attenzione: il mito, ci ricorda Ortoleva, non è la semplice bufala, in esso convivono verità ed immaginazione ed è per questo che non basta la classica contrapposizione tra verità e falsità per contrastarlo, perché molte volte si basa su un giusto presupposto.
Il mito, che ha da sempre accompagnato l’uomo, è riuscito a rimanere al passo con i tempi vestendo i panni delle leggende metropolitane. Ed ecco il punto, alle leggende non si crede razionalmente, si sceglie di credere. Quello che il giornalista deve prendere in considerazione secondo Ortoleva è che, anche se vengono divulgate delle informazioni corrette nel campo alimentare così come in quello scientifico, l’individuo può comunque scegliere di continuare a credere alle leggende, alle storie, raccontate per intrattenere. D’altronde, sia Ortoleva che De Blasio concordano su un punto: il mito è imprescindibile dalla vita dell’uomo, esisterà sempre. Come fare allora? Bisogna cercare di comprenderne le origini e dialogarci. «I miti non si interpretano, si raccontano», lo diceva anche Italo Calvino.