Muri alti, a volte troppo alti, che bloccano le persone in una zona morta senza prospettive. Spesso, la realtà del carcere si riduce a questo. Una situazione in totale controtendenza rispetto alla volontà di rieducare e reinserire sancita dalla Costituzione: tra le terapie più efficaci per non rimanere intrappolati in quella zona morta, c’è il lavoro. Con questa premessa si è aperto l’evento “Nuovi inizi: il lavoro come strumento di inclusione per le persone detenute”, che si è tenuto nella mattinata del 12 marzo nel centro congressi dell’Unione industriali Torino.
A organizzarlo, la stessa Unione industriali Torino, con il presidente Marco Gay che ha dettato la linea all’apertura dei lavori: “Se le imprese vogliono avere un ruolo da protagoniste sul territorio, è loro preciso dovere aiutare chi ha più bisogno di aiuto ben oltre la corporate responsability”. Come mettono in luce i dati di The european house – Ambrosetti (Teha), il nostro paese ha enormi difficoltà nel combattere la recidività: il 62% dei detenuti è già stato in carcere almeno una volta, ed è estremamente probabile che ci torni anche dopo aver scontato la condanna. “Negli ultimi anni abbiamo visto diversi ex detenuti che delinquono apposta per tornare in carcere, perché fuori non hanno trovato posto nella comunità – ha commentato Michela Favaro, vicesindaca di Torino – Uno spreco di risorse, umane e economiche, che non può continuare”.
Degli oltre 1.400 detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, solo il 21% lavora, e la maggioranza lo fa all’interno del carcere, circa il 90%. Numeri ancora peggiori rispetto alla già scarsa media nazionale, che vede l’occupazione dei detenuti al 33%, di cui l’85% alle dipendenze delle strutture carcerarie. Eppure, sempre secondo i dati Teha, favorire il lavoro in realtà esterne potrebbe ridurre la percentuale di recidività dal 62% al 2%. Favorire le relazioni tra carcere e imprese significa “favorire situazioni in cui vincono tutti, dallo Stato ai detenuti”, ha sottolineato Danny Winteler, presidente esecutivo di Teha group.
I dubbi del mondo penitenziario
In leggera controtendenza solo Mario Antonio Galati, provveditore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: “Le mura del carcere devono essere alte in alcuni casi e trasparenti in altri, perché il nostro primo obbiettivo è garantire la sicurezza sociale – ha dichiarato il provveditore – Per tutti questi progetti è necessario prima conoscere a fondo i detenuti attraverso un processo scientifico. Per questo bisogna pensare prima a portare le imprese in carcere che i detenuti fuori”.
Parole a cui si è affrettato a mettere una pezza il viceministro della Giustizia, Filippo Paolo Sisto, presente in videocollegamento, che ha voluto ricordare come “il carcere deve essere privazione della libertà, non della dignità. La Costituzione non ammette deroghe: tutti devono avere accesso alla rieducazione. Anche sul piano della salute, le regioni devono capire l’importanza di garantire nei penitenziari le stesse possibilità di cura che si trovano fuori”.