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Nostalgia di Pantani, ultimo mito del ciclismo antico

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Il più antico dei ciclisti moderni, un “fossile” dei tempi perduti di Coppi, Bartali, Gimondi nel bel mezzo degli anni ’90. Alla vigilia dell’anniversario della morte di Marco Pantani, ritrovato senza vita in una stanza del residence “Le Rose” di Rimini il 14 febbraio 2004, l’occasione è buona per ricordare quanto manchi al ciclismo di oggi una figura carismatica, complessa e fuori dagli schemi come la sua. Magari senza troppo indulgere ai punti oscuri della storia del “Pirata”, su cui comunque la giustizia ha pronunciato una parola definitiva. Giovedì 7 febbraio, al Caffè Basaglia di via Mantova, le Officine Corsare hanno dedicato una serata a Pantani e al ciclismo: ospite il giornalista Marco Pastonesi, quindici Giri d’Italia e dieci Tour de France per la Gazzetta dello Sport. Quattro anni fa, ha pubblicato il libro “Pantani era un dio”, un ritratto del “Pirata” disegnato dai racconti di chi di solito non ha voce, gli sconfitti.

Vivere in salita
Non si può scrivere di Pantani senza nominare il monte Carpegna. “Era la sua salita, lo specchio che gli diceva se era in forma o no – afferma Pastonesi – Il mio Pantani è nato lì: quelle strade erano i teatri dove lui si preparava ad andare in scena e per raccontarlo avevo bisogno di percorrerle”.

Un velocista può vincere cento volate senza che il pubblico ne ricordi una sola, tagliare per primo il traguardo dell’Alpe d’Huez o del Mortirolo, invece, può cambiare il senso di una carriera. Le salite, le vette sono i templi del ciclismo. Pantani faceva parte della razza particolare degli scalatori. Una volta, Gianni Mura (l’influenza gli ha impedito di essere presente all’incontro, giovedì scorso) gli chiese come mai pedalasse così veloce in salita: Pantani gli rispose che lo faceva per abbreviare la sua agonia. Una risposta enigmatica, in cui si nasconde il senso della sofferenza di cui Pantani aveva bisogno per essere il migliore di tutti.

L’amore del pubblico
Come si entra nel cuore dei tifosi? Vincendo. Pantani però in carriera ha vinto circa 35 corse in tutto (Eddy Merckx vinceva di più in un solo anno), eppure pochi sono stati amati come lui. Per diventare un mito, il successo non è tutto.

Il giornalista e scrittore Marco Pastonesi, autore di “Pantani era un dio”

“Pantani ha inventato un modo inedito, spettacolare, di attaccare” sottolinea Marco Pastonesi. “Scattava partendo davanti e dichiarava l’attacco spogliandosi della bandana che indossava. Non si nascondeva in mezzo al gruppo”.
Il pubblico del ciclismo è diverso da quello di ogni altro sport: in qualunque gara, lo spettatore sta in tribuna, in un ambiente separato dagli atleti, il ciclismo è il solo in cui il pubblico è lì, sulla strada. Per questo, il coinvolgimento è così forte. L’attesa dello scatto, l’emozione che Pantani trasmetteva attaccando quando logica lo avrebbe sconsigliato era irresistibile. L’azzardo poteva valere l’impresa o costare il fallimento, ma è su questo piano di sensazioni che il ciclismo di oggi appare più povero di quello di Pantani. I misuratori di potenza hanno segnato una nuova era, fatta di calcoli, dati e programmazione. Lo spazio per l’istinto e lo spessore umano è diventato minimo.

Squadra antica
Il ciclismo del passato viveva di gerarchie rigide all’interno delle squadre. “Chi correva per Pantani, si dedicava a lui in maniera quasi devota” racconta Pastonesi. Lo conferma Sergio Barbero, 50 anni, compagno di Marco Pantani dal 1995 al 1999, presente tra il pubblico del Caffè Basaglia. “Eravamo una squadra tutti per uno perché eravamo una squadra all’antica, forgiata da Luciano Pezzi, gregario di Fausto Coppi” racconta Barbero. “Pantani aveva carisma, aveva saputo crearselo sulla strada, era amato e rispettato da tutto il gruppo”.
La sua impresa più grande? “Credo quella di Oropa”. Una rimonta incredibile, sei giorni prima della fine. Sei giorni prima che i controlli dell’antidoping a Madonna di Campiglio, il 5 giugno 1999, lo costringessero allo stop per valori di ematocrito troppo alti. Una caduta da cui il “Pirata” non si rialzò più. L’unica intervista a tu per tu di Pastonesi con Pantani fu alla vigilia del Giro 2003, a Lecce: “C’era poco da rallegrarsi – ricorda il giornalista – era un Pantani diffidente, che pesava le parole. Un uomo che cercava nella bicicletta l’ancora di salvezza”. Alla fine di quel mese di gara, sparì dalla circolazione fino al 14 febbraio di quindici anni fa. “I campioni sono macchine perfette, basta un sassolino per spezzare quell’armonia” commenta Pastonesi. Per fortuna per cancellare le emozioni di uno scatto in salita del “Pirata” non basta così poco.

LUCA PARENA