Come una partita di Risiko la diplomazia dei vaccini, ha degli obiettivi: conquistare territori. Non lo fa con i carri armati, ma con container carichi di siero. La Cina, per ora, ha fatto 12 ai dadi, parte in rincorsa e domina la partita.
Il virus supera i confini, il vaccino ne disegnerà di nuovi. La pandemia entra nell’arsenale della diplomazia internazionale cinese, e non solo. Il Covid diventa così un fulcro intorno al quale edificare narrazioni belle, che raccontino bene la storia della Cina. I vaccini, il mezzo per trasmettere questa storia.
A inizio febbraio il Pakistan riceve mezzo milione di dosi del vaccino cinese. Arriva poi in Cambogia, in Nepal, Sierra Leone e Zimbabwe. 3 milioni di dosi Sino Vac hanno viaggiato su un Boeing 777 per arrivare in Turchia a metà dicembre. Joao Doria, governatore di San Paolo, ha firmato con il colosso farmaceutico cinese un accordo per l’acquisto del CoronaVac, gli Emirati Arabi e Bahrain approvano Sinopharm, annunciando un livello di efficacia del 86%. La Cina poi sigla accordi di licenza per consentire ai produttori locali, come per gli Emirati Arabi o la Malesia, di produrre parzialmente o completamente i vaccini contro il Covid-19. La partita è aperta.
Un’operazione di soft power, che mira ad ammorbidire le rivendicazioni territoriali cinesi e nel mentre proiettare un’immagine di cooperazione internazionale. Come in Indonesia, con 1.8 milioni di dosi arrivate a fine gennaio. Una dipendenza pericolosa, perché dentro i container che trasportano i vaccini si nascondono anche le rivendicazioni del Mar Cinese Meridionale. Un debito che rischia di trascinare l’Indonesia nella stessa fossa in cui è inciampato lo Sri Lanka, quando nel 2010 ha dovuto cedere il 70% del porto di Hambantota alla Cina, non riuscendo a coprire i prestiti di Pechino. La Russia, con lo Sputnik V, si muove in un terreno analogo: distribuisce dosi in quei paesi che non sono in grado di avviare programmi di vaccinazione indipendenti. Quei paesi, che poi, potrebbero rientrare nella sua sfera di influenza.
Una battaglia che si gioca anche sui terreni della comunicazione. Destabilizzare i paesi del mondo disseminando disinformazione: è l’accusa mossa alla Russia. Una tattica aspramente criticata dal generale britannico Sir Nik Carter, che l’ha definita “una strategia di guerra politica” intrapresa da Pechino e Mosca, “progettata per minare la coesione dell’Occidente” . Si riferisce al comunicato stampa che a luglio viaggiava sui siti ucraini. Il racconto di una sperimentazione statunitense su volontari poi morti, a causa delle dosi somministrate. Una narrativa fuorviante che mira a insistere sulla rafferma dicotomia buono/cattivo.
L’Occidente intanto, intrappolato nelle sue radici nazionalistiche, muove qualche passo incerto, forse, la sua, non è stata una strategia efficace. Orban infatti si distanzia dal fronte vaccinale europeo: l’Ungheria è il primo paese dell’Unione che somministra lo Sputnik russo. Milioni di dosi previste per i prossimi mesi. Il Presidente Orban sottolinea che “il vaccino non è una questione politica”. E invece sì, lo è. E per questo Europa e Stati Uniti cercano di correre ai ripari. Il 19 febbraio Macron dichiara al Financial Times che “la mancata condivisione dei vaccini in modo equo rafforzerebbe la disuguaglianza globale”. Lo stesso giorno la Casa Bianca annuncia l’impegno di Biden nel stanziare 4 miliardi per il programma di vaccinazione globale Covax. La strategia del Regno Unito: distribuire oltre i suoi confini le dosi in eccesso. Il silenzio occidentale ha lasciato vuoti ampi spazi di manovra, ed è lì che la diplomazia dei vaccini si è infiltrata marchiando territori con lo stigma del debito. Lo scriveva Sun Tzu, ne L’arte della guerra, “chi voglia attaccare in modo irresistibile lo faccia nei vuoti”. E così è stato. Eppure è una storia già sentita. La lotta contro le malattie è da sempre un proficuo terreno di scontro sul quale contendersi aree di influenza. Si pensi alla campagna per l’eradicazione del vaiolo, che ha alimentato la rivalità fra Unione Sovietica e Stati Uniti. O alla Sars del 2002, un’opportunità di azione per il governo cinese. Un mezzo per attivare quella diplomazia mascherata attorno alla quale raccontare la sua legittimità come attore globale. L’aiuto a Taiwan, è stato l’emblema di quelle rivendicazioni territoriali.
La risposta entusiastica della Cina all’emergenza, l’assenza di Stati Uniti e Unione Europea. Una realtà che ora poggia su basi fragili, perché il sud-est asiatico sembra guardare con speranza ai vaccini statunitensi ed europei. Soprattutto dopo la notizia arrivata dal Brasile, che denuncia un’efficacia del 50,4% di Sinovac. Due i nervi scoperti. In prima linea i dubbi sul vaccino cinese. Sinopharm e SinoVac sono vaccini inattivati: utilizzano particelle virali incapaci di replicarsi. Un approccio più tradizionale rispetto alle tecnologie Rna di Pfizer e Moderna, ma che ha bisogno di controlli di sicurezza più robusti. Ha bisogno di più tempo, d’altronde si maneggia il coronavirus, non il suo genoma. Entrambi i vaccini, anche se ancora in fase di sperimentazione 3, sono stati autorizzati. La preoccupazione della comunità scientifica internazionale è palpabile, mancano infatti dati pubblici che documentino l’efficacia del siero. Non solo, la battaglia per arginare il virus richiederà anni di sostegno da parte di partner internazionali. Programmi di supporto strutturati basati sulla cooperazione.
Lo scatto della Cina nella corsa alla vaccinazione non è che la buona partenza di una lunga maratona. Un quadro ancora aperto, che si giocherà in terreni instabili e sul lungo periodo. E’ come una partita di Risiko, ci vorrà tanto tempo per capire chi vince.