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Myanmar, i proclami non bastano: Torino in prima fila contro il regime militare

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Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato, mercoledì 10 marzo, la violenza da parte dell’esercito del Myanmar nei confronti dei civili che protestano contro il colpo di Stato del primo febbraio 2021. Nella dichiarazione, i quindici membri dell’organismo più potente dell’ONU chiedono all’esercito “massima moderazione”, e sollecitano i militari a rilasciare immediatamente i leader del governo, il Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e il Presidente Win Mynt, detenuti ormai da più di un mese. Viene anche esplicitato il supporto alla transizione democratica del paese, sottolineando “la necessità di sostenere le istituzioni e i processi democratici, astenersi dalla violenza, rispettare completamente i diritti umani e le libertà fondamentali e sostenere lo stato di diritto”. Il comunicato riflette il risultato di una lunga negoziazione che ha visto la prima bozza, presentata dalla Gran Bretagna, bloccata da altri membri permanenti (aventi potere di veto) del Consiglio di Sicurezza: Cina, Russia, India e Vietnam. Per certi versi, pertanto, costituisce un passo indietro rispetto alle intenzioni iniziali. La prima versione, infatti, affermava che l’Onu sarebbe stata pronta “a considerare possibili misure ulteriori” se l’esercito non avesse agito in tutela dei valori democratici. I quattro membri, inoltre, hanno spinto per eliminare ogni riferimento al colpo di Stato. Una situazione che rispecchia i limiti dello strumento teoricamente più utile per risolvere le controversie internazionali.

“Rimane sempre il solito problema” afferma Patrizia De Grazia, coordinatrice dell’Associazione Radicale Adelaide Aglietta, ieri in presidio presso il Consolato onorario del Myanmar di Torino, “quello dei membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza. Il potere di veto di cui dispongono, a nostro avviso molto anacronisticamente, da sempre paralizza il lavoro del Consiglio nel momento in cui deve intervenire per qualcosa di serio, come la protezione dei diritti degli esseri umani, della pace, del diritto internazionale”.

La situazione, nel Paese, è tragica. Nelle scorse ore Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui accusa l’esercito di “follia omicida”, descrivendo come questo stia “usando tattiche sempre più letali e armi che si vedono normalmente nei campi di battaglia contro protestanti pacifici e astanti in tutto il paese”. “La repressione da parte dei militari” continua De Grazia, “avviene su oppositori nella maggior parte pacifici. Vi sono stati tentativi di mediazione e compromesso da parte di oppositori, attivisti e manifestanti, ma i militari hanno ordinato di sparare addosso a chi prova ad avvicinarsi. Non c’è mediazione da parte loro. È un unicum nelle proteste democratiche degli ultimi anni: Hong Kong, Bielorussia, Thailandia, Turchia. La repressione c’è, ci sono arresti, processi, ma una strategia così violenta non è stata registrata in nessuna di tali situazioni. Ora ci si trova dei militari che uccidono ragazzi arbitrariamente, che assediano interi quartieri delle città, che attaccano le università, le ambulanze. Hanno picchiato membri dello staff sanitario perché stavano curando persone sospettate di essere manifestanti che erano ferite, contro ogni diritto della persona”. Solo nella giornata di oggi, giovedì 11 marzo, i militari hanno ucciso a colpi di arma da fuoco almeno dieci persone, che si aggiungono agli oltre sessanta morti per mano delle forze armate dall’inizio delle proteste. Oltre duemila persone sono state arrestate arbitrariamente, fra cui numerosi esponenti del partito legittimamente eletto al governo fino a poco tempo fa, la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi. La leader 75enne, tra l’altro, ha visto in queste ore aggiungersi una nuova accusa a suo carico: aver ricevuto illegalmente 600mila dollari e lingotti d’oro di quasi pari valore da un alleato politico nel biennio 2017-18. Alcuni esponenti del partito sono addirittura morti in seguito alla detenzione da parte delle forze armate. Nei giorni scorsi, l’Osservatorio per i Diritti Umani dell’Onu ha chiesto alla giunta militare un’indagine imparziale per la morte del 58enne Khin Maung Latt, picchiato in casa di fronte alla sua famiglia, che lo ha visto portar via ritrovando il corpo il giorno successivo. La stessa sorte ha colpito Zaw Myat Lynn, deceduto mentre era in custodia degli ufficiali dopo essere stato arrestato a Yangon e, si pensa, torturato a morte. Oltre alla violenta repressione dell’opposizione politica, il nuovo governo birmano sta colpendo duramente anche i giornalisti. Le autorità, infatti, hanno oscurato cinque stazioni locali, che hanno visto cancellate le loro licenze. Inoltre, i militari hanno assaltato la sede di alcune testate, arrestandone i fondatori. Sono decine i giornalisti detenuti dal primo febbraio, incluso un reporter dell’Associated Press.

L’esercito, in Myanmar, non ha mai smesso di essere una presenza terrorizzante nella vita della popolazione. Anche durante la parentesi pseudo-democratica iniziata con le elezioni del 2015, dopo mezzo secolo di dittatura militare, le forze armate hanno perpetrato crimini e abusi contro i civili e le numerose minoranze che compongono il tessuto sociale. Negli ultimi tre anni, infatti, i militari hanno ripetutamente utilizzato gli abitanti come scudi umani nelle zone di guerriglia, costringendoli a precederli negli avanzamenti e a perire per primi sotto le pallottole dei nemici, o a camminare sotto minaccia lungo i campi minati per consentire di scovare gli ordigni antiuomo pagando con la propria vita. A ciò si aggiunge la ben nota pulizia etnica nei confronti della minoranza musulmana Rohingya, definita “genocidio” dalle Nazioni Unite, che nel 2017 ha portato all’espulsione forzata di 700mila persone dallo stato occidentale del Rakhine, causando la morte violenta di quasi 7mila innocenti.

“La democratizzazione del Paese andava avanti molto lentamente anche per questo – spiega De Grazia -. I militari hanno detenuto sempre un grandissimo potere, e il golpe era nell’aria già da un po’, oltre ad esserci già stato. Questa volta sembra essere più una mira personalistica del generale Min Aung Hlaing, perché anche all’interno delle forze di sicurezza probabilmente non tutti sono contenti di questo approccio di massacro. È ancora troppo presto, però, per capire quali sviluppi ci saranno all’interno delle forze armate. Ci sono più correnti anche nella giunta militare. Come questa situazione evolverà, se imploderà o esploderà, lo vedremo solo nei prossimi mesi”.

Allo stato attuale, perciò, non è chiaro prevedere cosa accadrà. Vi sono comunque segnali di reazione, anche all’interno delle stesse forze dell’ordine. Un numero significativo di membri dei vari corpi di polizia birmani ha deciso di rifiutarsi di eseguire l’ordine, proveniente dalle superiori gerarchie militari, di “sparare ai protestanti finché non sono morti”. Sono decine i poliziotti che hanno lasciato il Myanmar per attraversare il confine e rifugiarsi nella vicina India assieme alle loro famiglie.

La lotta per la democrazia arriva fino in Italia. Come accennato prima, l’Associazione Radicale Adelaide Aglietta ha organizzato un presidio presso la sede del Consolato Onorario del Myanmar, a Torino.

“Noi, con una lettera consegnata direttamente, abbiamo chiesto al Console di prendere una posizione pubblica su quanto sta accadendo in Myanmar – racconta De Grazia -. Pur comprendendo la difficile situazione delle istituzioni in questo momento, abbiamo fatto presente che l’istituzione serve soprattutto nei momenti di crisi. Non crediamo sia accettabile il silenzio di fronte a decine di migliaia di persone che scendono in strada, centinaia di feriti, migliaia di arresti, e decine di morti che aumentano ogni giorno in modo spietato, con armi letali che nemmeno la giunta militare dovrebbe avere perché esiste un embargo nei loro confronti”.

Servono, però, anche adeguate risposte dalla comunità internazionale. “Occorre riaprire una battaglia per eliminare i membri permanenti dalle Nazioni Unite. Altrimenti l’Onu rimane una cosa buttata lì, e possiamo anche evitare di scrivere il diritto internazionale se, poi, non siamo in grado di farlo applicare. Le sanzioni dei singoli Stati, come quelle degli Stati Uniti, non mirano alla tutela del diritto internazionale, bensì alla tutela dello stato che le emana. Non possono essere un’arma efficace, ma non c’è alternativa. Il Consiglio di Sicurezza, adesso, non funziona.”.