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Myanmar e la guerra dei vent’anni a Facebook

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È una storia difficile quella tra Facebook e il Myanmar. Una storia che odora di tè e sangue. 

Mercoledì sera Facebook annuncia la cancellazione con effetto immediato dei profili legati alla giunta militare del Tatmadaw, protagonista del colpo di stato che soffoca il Myanmar dal 1 febbraio. Vietati anche gli annunci pubblicitari di enti o aziende legate alla giunta. Le prime limitazioni scattano due settimane fa per la pagina ufficiale del Tatmadaw e quella di un suo portavoce.  

Per comprendere bene la decisione di Facebook bisogna però fare un passo indietro. Partire dall’inizio. Quando il popolo del Myanmar andava nei negozi di tè per raccogliere informazioni chiacchierando con le persone. Quando una scheda Sim poteva costare un centinaio di dollari con la società di telecomunicazioni statale MPT. La penetrazione dei dispositivi mobili era fra le più basse al mondo.

Sono gli anni 2000, e la maggior parte della popolazione sotto il governo militare non ha internet. La liberalizzazione muove i primi passi nel 2011, protagoniste le due società di telecomunicazioni: la norvegese Telenor e la Oredoo del Qatar. Dall’oggi al domani il Myanmar va on line, si comprano cellulari, crollano i prezzi. Facebook consente l’utilizzo della sua app eliminando i costi dei dati.

Guadagna popolarità entro i confini del Myanmar, e l’internet del Paese coincide con la piattaforma social. Solo un anno dopo qualcosa cambia. È il 2012 e le violenze comunali tra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana Rohingya occupano le strade, e non solo. Facebook diventa il canale dove amplificare quelle tensioni violente che sporcano cemento e terra di sangue. Un monaco estremista e anti-musulmano Ashin Wirathu, condivide un post. Scrive di una ragazza buddista, violentata da uomini musulmani. Non è vero, ma diventa virale. La folla scende in piazza, due persone muoiono. Gli investigatori della Nazioni Unite sui diritti umani concludono che l’incitamento d’odio su Facebook ha svolto un ruolo chiave nel fomentare le violenze per le strade, dove la gente muore dissanguata fra la polvere. Facebook non reagisce e sbaglia. “È stato complice di un genocidio. C’erano già i segnali e forti inviti a far si che Facebook gestisse l’incitamento alla violenza sulla  piattaforma, ma la loro inerzia ha davvero contribuito alla diffusione della violenza in Myanmar”, è l’affermazione Rin Fujimatsu del gruppo di ricerca e difesa Progressive Voice, riportata dalla Bbc. L’attenzione di Facebook si fa più sottile, comincia ad adottare misure per rimuovere attivamente l’incitamento all’odio dei funzionari militari. Così nel 2018 bandisce Min Aung Hlaing, il leader delle forze armate del Myanmar, l’uomo che sta guidando l’ultimo colpo di stato. Lo fa in seguito alla repressione della minoranza musulmana rohingya, costretta a lasciare il paese e rifugiarsi in Bangladesh, insieme a lui bandisce il canale televisivo dell’esercito Myawaddy dalla sua piattaforma. 

Arriva il 2021, i militari occupano il Myanmar e bloccano internet per silenziare le voci del dissenso. Violano i diritti umani, la libertà di espressione. Anche la tutela alla salute, le campagne anti-covid si svolgono soprattutto sulla piattaforma. Una censura antidemocratica che vuole soffocare la disobbedienza civile che reagisce pacificamente inondando le strade. Facebook infatti si è rivelata una piattaforma cruciale per organizzare la resistenza al colpo militare. 

Deve reagire, alla luce di questa controversa storia, Facebook, sembra avere l’obbligo di tutelare i diritti umani e la libertà di espressione del popolo del Myanmar. Le minacce online non devono portare danni offline. Facebook vuole rimanere una fonte di informazione e di comunicazione, non un incubatore di violenza. Il centro operativo della piattaforma ha intensificato la sua attività coinvolgendo anche i cittadini ed esperti locali per monitorare la situazione. Un numero crescente di attivisti, manifestanti che scattano foto, condividono video, raccontano storie. “Gli eventi successivi al colpo di stato del 1 febbraio, inclusa la violenza mortale, hanno accelerato la necessità di questo divieto. Crediamo che i rischi di consentire il Tatmadaw su Facebook e Instagram siano troppo grandi”  ha scritto in un post mercoledì sera Rafael Frankel, direttore delle politiche di Facebook per i paesi emergenti nella regione Asia- Pacifico. 

Dalla primavera araba al #metoo, la storia si riassume nel mediattivismo che ha segnato questi nuovi tempi digitali. Togliere le piattaforme ai nuovi resistenti contemporanei è di fatto come imbavagliarli, costringerli al confino.