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Mondiali in Qatar, alla vigilia delle qualificazioni boicottaggi, proteste e dibattito in Parlamento

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Se fosse solo sport, la notizia sarebbe l’imminente ripresa delle partite della Nazionale italiana in vista delle qualificazione per i prossimi mondiali di calcio del 2022 in Qatar. Ma l’evento per il quale saranno in gara gli Azzurri trascende il calcio, coinvolge la politica e i diritti umani.

La notizia di un ipotetico boicottaggio dei Mondiali da parte della nazionale norvegese aggiunge l’ultima tessera ad un mosaico di denunce che si susseguono da 10 anni. Il paese scandinavo è il primo a rendere la proposta di disertare la spedizione in Qatar materia di voto, sebbene si tratti di una consultazione interna alla federazione calcistica norvegese.  Il Qatar è accusato da anni di condurre uno sfruttamento di massa dei lavoratori impiegati nei siti di costruzione, provenienti in prevalenza dai paesi dall’Asia meridionale. La votazione sul boicottaggio è stata rimandata al 20 giugno, ma ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica di casa e non solo. In Danimarca è in corso una raccolta firme che, se toccasse quota 50mila adesioni entro il prossimo 8 giugno, renderebbe il boicottaggio oggetto di discussione parlamentare. Ad ora però, la federazione si è espressa decisamente contraria a qualunque ipotesi di ritiro della squadra. Parallelamente la Arbejdernes Landsbank – la banca che sponsorizza la nazionale – ha fatto sapere di essere pronta a ritirare sponsorizzazione in caso di ammutinamento.

Martin Schmidt, giornalista sportivo per la testata online Bold.dk, racconta che “negli ultimi giorni la popolazione considera con maggior serietà l’ipotesi di appoggiare il ritiro della nazionale, qualora si qualificasse”. Le gare d’accesso alla fase finale partiranno il prossimo 24 marzo, con la Danimarca impegnata nel gruppo F insieme a Israele, Danimarca, Moldavia, Isole Faroe, Scozia e Austria. “Quanto è successo in Norvegia è stato recepito anche qui, così come in Svezia,” continua Schmidt. “Alla base c’è la crescente politicizzazione dello sport, divenuto un territorio aperto a istanze provenienti da realtà diverse”. La sensibilità verso temi come i diritti e l’ambiente – entrambi pesantemente sul piatto nel dossier Qatar – è alta nei paesi scandinavi, tanto da aver spostato notevolmente l’attenzione dei media: “Il nostro focus ora è sul racconto di quanto accadrà. Continueremo a sentire l’opinione del pubblico per capire se si avranno i numeri per giungere a un trattamento politico della questione. Di certo, la consapevolezza su certi argomenti è qui ai massimi storici e una parte del merito è anche dei media che hanno saputo portare alla luce quel che stava accadendo.”

Schmidt fa riferimento all’analisi recentemente pubblicata sul sito del Guardian, che ha reso noti numeri spaventosi: oltre 6,500 lavoratori provenienti dall’estero sono morti da quando nel 2010 il Qatar ha ottenuto il diritto di ospitare i Mondiali. Nell’ultimo decennio centinaia di migliaia di lavoratori sono arrivati da India, Pakistan, Nepal e Bangladesh, per essere impiegati nella radicale trasformazione di una distesa di sabbia in un paese altamente tecnologico: in Qatar sono sorti sette nuovi stadi, insieme a numerose vie di comunicazione e a un intero mercato che prolifera sul sogno del 2022. Una notizia per il quale in Senato è stata presentata un’interrogazione parlamentare destinata al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio da parte del gruppo di Fratelli d’Italia.

Uno sforzo imponente, dal costo umano difficile da quantificare. La classificazione delle morti sul lavoro legate ai siti in costruzione sono sempre stato un nervo scoperto per il comitato organizzativo e i funzionari del paese. Human Rights Watch ha esercitato pressione – ad ora inutile – sul governo per emendare la legge vigente sulle autopsie, autorizzando a procedere nei casi di morte in circostanze poco chiare.  Il nesso di casualità tra il numero record di operai emigrati dall’Asia meridionale morti e la presenza di cantieri più volte additati dagli osservatori internazionali come luoghi di violazione dei diritti umani non è passato inosservato nemmeno nell’analisi del Guardian che riporta le parole di Nick McGeehan, direttore di FairSquare Projects, un gruppo di advocacy che opera nell’area del Golfo: “Anche se i dati dei decessi non specificano il tipo di occupazione o il luogo di lavoro, è probabile che molti immigrati morti negli ultimi dieci anni lavorassero in questi progetti”

Se è vero che i resoconti sulle ripetute violazioni si susseguono sin dall’assegnazione dei Mondiali al Qatar, non si può trascurare che l’accesso a un insieme organizzato di dati consistenti abbia faticato non poco ad imporsi. Il motivo è legato, secondo il Guardian, alla quasi totale mancanza di trasparenza nel registrare le morti da parte delle autorità del Qatar. “C’è una totale mancanza di chiarezza riguardo all’aumento del numero dei morti,” riferisce May Romanos, ricercatore di Amnesty International sui paesi del Golfo.

Una ricerca pubblicata lo scorso novembre proprio da Amnesty, ha fatto il punto sulla legislazione che regola i rapporti tra la forza lavoro proveniente da paesi stranieri e i rispettivi datori. Lo scorso anno il Qatar era formalmente intervenuto sul sistema della kafala, ovvero sulle leggi che limitavano i diritti dei lavoratori. Sotto l’occhio parzialmente vigile dell’International Labour Organization (ILO), il paese aveva infatti rimosso l’obbligo di possedere un nulla osta datoriale per qualunque lavoratore desideroso cambiare occupazione o lasciare il paese. Tuttavia Amnesty ammonisce sui risvolti pratici di tale riforma dei rapporti di lavoro, insistendo sul permanere di “misure di controllo dello status legale del lavoratore e della possibilità di rappresaglia ai danni degli operai”.

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