Cosa c’è dietro i grandi movimenti migratori? Ci sono storie a cui bisogna restituire la dignità dei dettagli, che spesso per tante ragioni restano fuori da articoli e reportage. “Penso che il regalo che oggi si debba fare a un giornalista sia il tempo. L’unico modo che hai per capire un luogo è dare a questo luogo il tempo per smentirti, per farti capire che non avevi compreso niente”. Lo dice la giornalista Francesca Mannocchi, al Festival del giornalismo di Perugia, parlando di migrazioni globali insieme al collega Agus Morales, in un panel moderato da Maria Gianniti, inviata redazione esteri del TG1.
I movimenti migratori non riguardano solo il nostro continente ma anzi si espandono in Africa, Asia e America. Spesso considerati fenomeni troppo lontani per essere percepibili, attirano fugacemente l’attenzione dei media internazionali per poi, rapidamente, scomparire dal circolo informativo. Eppure quella in gioco è “un’umanità dolente e anche non dolente che vive una realtà di allontanamento dal proprio paese, che cerca di ricostruirsi una vita altrove: un insieme di tante storie cui bisogna dare un nome” ricorda Maria Gianniti.
Agus Morales da dieci anni segue le orme degli esiliati della terra, descrivendone gli spostamenti, riportandone le testimonanianze: non si tratta solo di rifugiati ma anche di migranti e sfollati. Dal suo reportage nasce “Non siamo rifugiati“, racconto al crocevia tra giornalismo e letteratura che documenta storie di vita nei paesi dell’Africa e dell’Asia maggiormente interessati dall’attuale flusso migratorio. Un percorso di giornalismo narrativo in diciassette paesi, lungo le rotte degli esodi che stanno ridisegnando il mondo. L’idea nasce dall’incontro del giornalista con Ulet, un ragazzo somalo di 15 anni, ridotto in schiavitù e torturato in un centro di detenzione in Libia. Un giovane che, sognando l’Italia, s’imbarca e muore a bordo di una nave umanitaria.
Morales, che quel ragazzo l’aveva incontrato in mezzo al Mediterraneo, proprio durante il suo primo e ultimo viaggio, voleva scrivere un libro su di lui e sulle duecento persone incontrate che fuggivano dalla guerra, dalla persecuzione politica e dalla tortura. “Non profughi ma sfollati interni, che non sono mai usciti dai confini dei loro paesi o che l’hanno fatto ma non hanno ricevuto asilo” ricorda il giornalista spagnolo. “La formula che ho trovato per trasportare il lettore su una nave di salvataggio non era la descrizione impersonale, ma la scrittura di frasi successive che erano come onde, che oscillavano, che cercavano di riprodurre la sensazione che avevo a bordo”.
Anche Francesca Mannocchi, giornalista e documentarista, ha voluto portare la sua testimonianza. O, meglio, le testimonianze che grazie a lei ora possono trovare voce e diffusione. Lei si è concentrata sulla Libia: e proprio qui è ambientato il suo “Io Khaled vendo uomini e sono innocente“. Scritto in prima persona, la Mannocchi ha deciso di vestire i panni di un trafficante. “Perché Kaled esiste, anche se non è quello il suo vero nome. É uno dei tre trafficanti di uomini che ho incontrato in Libia. Il meno prepotente. Mi ha posto di fronte ad alcune sfide di senso” ha confidato la giornalista. “La scrittura di questo libro è stata una manifestazione di autocritica rispetto al lavoro fatto in questi anni e anche un modo di farmi domande sul nostro mestiere, che sta vivendo un momento molto complicato perché tende ad una riduzione della complessità”.
Lei ha voluto raccontare il traffico di uomini dalla voce di un trafficante, cercando così di trasmettere i dettagli di questo fenomeno. “Ho vissuto in prima persona la sensazione di smarrimento, di non aver capito un fenomeno: le spiegazioni che, fino a quel momento mi ero data, non erano sufficienti. Quando racconti i luoghi stando nei luoghi ti ritrovi davanti a frasi stupefacenti, davanti ad una persona che ti confida di essere riconoscente al suo trafficante perché gli consente di salire su un gommone per attraversare il Mediterraneo” racconta la giornalista. “Ti guardano con occhi commossi e ti dicono ‘I’m very grateful’. E tu ti chiedi ‘come è possibile? Devo fermarmi. Non capisco qualcosa‘. Così comprendi che ciò che non hai capito è ciò che avevi smarrito. E ciò che hai smarrito è il problema all’origine, che determina il traffico di uomini: la politica dei visti” ricorda la Mannocchi.
“Siamo troppo spesso abituati a seguire una logica di narrativa emergenziale: quella dei migranti, quella del maltempo o quella del traffico stradale la prima settimana d’agosto. E a forza di rincorrere soluzioni semplici per eventi complessi – così costantemente banalizzati – smarriamo le ragioni profonde e tragicamente semplici che muovono fenomeni come lo spostamento di milioni di persone in giro per il mondo”.
Il problema principale che determina il fatto che un essere umano sia riconoscente verso un trafficante è che quell’essere umano non può muoversi altrimenti: questo il motivo all’origine del pagamento dei trafficanti per attraversare un confine in Pakistan o valicare le frontiere balcaniche. Una situazione che si sta drammaticamente aggravando a causa della restrizione della politica dei visti. Quelle narrate sono infatti situazioni di persone cui è stato tolto il diritto di movimento.
“Noi, in questi anni, abbiamo fatto l’errore di livellare la narrazione su questi esseri umani: abbiamo sbagliato a descrivere queste persone solo come dei disperati, non pronunciandoci sulla spinta vitale che li anima. Anche la narrazione in buona fede è stata spesso una narrazione banalizzante, di sola disgrazia e disperazione”. Invece le ragioni del movimento degli esseri umani sono fluide e varie, per esempio il desiderio di una vita diversa.
“Quelli che noi chiamiamo centri di accoglienza, in realtà sono vere e proprie prigioni: lo sono anche per la legge libica”. Luoghi dove le persone considerate clandestine rimangono recluse sine die. “Quanti sono questi centri?” le chiede Maria Gianniti. “Non è dato saperlo, soprattutto negli ultimi anni. In quelli ufficiali che ho visitato – risponde la Mannocchi -, ho assistito alla morte di ragazzi per tubercolosi. Nel centro di detenzione di Garian, composto da 11 hangar di lamiera e popolato da 1100 detenuti, ho parlato con un ragazzo di tredici anni, John. Giovane nigeriano di 14 anni, che aveva viaggiato fin lì in solitaria, mi ha raccontato ‘qui siamo come dei polli. Tutte le sere, prima di addormentarmi, mi sento fortunato perché faccio ancora parte dei vivi e non di quelli che stanno morendo”.