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Maaza Mengiste: “La battaglia per la memoria è battaglia per il futuro”

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Nata ad Addis Abeba, Maaza Mengiste è una scrittrice di fama internazionale autrice di due romanzi. Nel primo, Lo sguardo del leone (Neri Pozza, 2010), la vicenda si svolge in Etiopia al tempo dell’imperatore Hailè Selassiè, mentre il secondo, Il re ombra (Einaudi, 2024), che tratta della guerra coloniale italiana in Etiopia, è stato finalista al Booker Prize 2020 ed è stato selezionato fra i migliori libri dell’anno da numerose testate internazionali. Ospite a Biennale Democrazia, Mengiste ha parlato di memoria in un dialogo costante tra presente e passato. “Le memorie sono sempre con noi – ha affermato l’autrice – non ci lasciano mai e formano il nostro presente”. Nel raccontare un evento del passato infatti chi scrive non sta solo lavorando sulla Storia ma sta guardando anche al futuro.

A proposito del suo romanzo Il re ombra, lei ha detto che “il linguaggio della guerra è sempre maschile”. Perché? Ed è corretto dire che in una guerra è il genere maschile a prevalere?

Credo che le storie di guerra siano state spesso raccontate dagli uomini. Sono state, in sostanza, la storia della mascolinità, dei trionfi, delle aggressioni, delle invasioni degli uomini. Le storie delle donne invece, le storie di comunità, le storie di costruzione piuttosto che di distruzione, di mantenimento, di sopravvivenza, tendono a essere ignorate. Queste storie vengono raccontate solo negli spazi in cui le donne si riunivano cioè nelle cucine, nelle case, nei campi, nei mercati. Ma non pensiamo a queste storie come alla Storia.  Ecco perché ho detto che il linguaggio della guerra è stato spesso maschile: è sempre stata la narrazione delle aggressioni a predominare, questo infatti è il modo in cui gli uomini hanno voluto identificarsi e rappresentarsi.

Ma cosa accadrebbe se considerassimo la storia di una nazione non attraverso le guerre che ha vissuto, ma attraverso gli spazi tra le guerre? Guardando a chi manteneva le comunità durante le guerre? Portare questo sguardo sulla storia potrebbe ribaltare il modo in cui identifichiamo e pensiamo un Paese.

Secondo lei un linguaggio più equo può aiutare a costruire una memoria più giusta?

Penso che spesso il linguaggio sia stato usato come un’arma per imporre una forma alla memoria, una forma alla storia. Il linguaggio può aiutare a cancellare alcuni membri di una comunità. Può cancellare il loro contributo a quella comunità. Può cancellare anche il modo in cui iniziamo a capire il loro posto nel futuro, non solo la memoria. La battaglia per la memoria è in realtà una battaglia per il futuro. Quindi il linguaggio dà forma a tutto questo.

Credo però che al linguaggio debba seguire l’azione. E cioè, come fa una comunità a iniziare non solo a parlare delle persone che ha cercato di cancellare, ma anche a fare spazio per loro, a riconoscerle e a rimodellare fisicamente la comunità per includere ciò che è stato eliminato? Penso, per esempio, ai luoghi dove il patriarcato ha sempre regnato ma anche di luoghi in cui gli immigrati sono stati messi da parte, dove per una comunità è quasi meglio far finta che non esistano piuttosto che guardarli. E dire: posso nominarti, posso riconoscerti, ma ora devo allargare il mio mondo per portarti nel mio mondo.

Possiamo dire quindi che la memoria è uno strumento di riconciliazione necessario per la costruzione della pace?

In un certo senso. Diciamo che dobbiamo ricordare certe cose per riconoscere dove siamo oggi e per capire dove vogliamo andare. Ma a volte mi chiedo se non avessimo anche bisogno di dimenticare per andare avanti. C’è bisogno di un equilibrio tra ciò che ricordiamo e ciò che dobbiamo lasciare andare.

Quali sono i ricordi di una nazione che l’hanno tenuta legata al passato e non le hanno permesso di crescere, di muoversi e di diventare una società più aperta? Quali sono i ricordi che quella nazione ha voluto dimenticare? È possibile che le nazioni scelgano cosa ricordare e cosa dimenticare? Queste sono le domande che mi pongo. La memoria forma l’identità di una nazione. La modella nel presente per creare un futuro. Per questo la memoria è molto importante. Ma comincio anche a pensare che dobbiamo bilanciarla con una sorta di oblio che ci permetta un’apertura nel presente. Un modo per reimmaginare noi stessi. Se stiamo assistendo alle guerre attuali penso che sia anche perché i Paesi si aggrappano a una memoria che dà loro un tipo di identità e si rifiutano di riconoscerne un’altra.

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