La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Medici di base, in Piemonte ne manca quasi un quinto

condividi

“In Piemonte mancano ben 600 medici di medicina generale secondo i dati registrati a ottobre”. In pratica, un quinto del totale. A parlare è Alessandro Dabbene, vicesegretario nazionale e segretario di Torino della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg). Innanzitutto, premette Dabbene, “bisogna capire a che cosa ci riferiamo quando parliamo di carenza di medici”. In Piemonte, il rapporto stabilito dalla Regione è di un medico di medicina generale ogni 1200 assistiti. “Sulla base della popolazione residente maggiore di 14 anni, questo significa che occorrono circa 3250 medici”. Si deve considerare, però, che la capienza può essere innalzata a 1500 assistiti e, in caso di carenza grave, si può salire in deroga fino a 1800. “In questo senso, anche con una carenza di organico possiamo avere comunque copertura. Le carenze registrate a ottobre del 2025 sono addirittura 600: nella fotografia di ottobre 2025 su 3250 medici teoricamente necessari ne mancavano 600 e quindi ne erano presenti 2650”.

Concretamente, nella maggior parte dei casi i pazienti sono comunque assistiti da medici che arrivano a 1500/1600 assistiti, ma “ci sono alcune zone, nella regione, dove invece la carenza ha lasciato i pazienti senza medico. Questo sta avvenendo soprattutto nelle province di Alessandria, Biella, Vercelli, Novara e del Verbano Cusio Ossola e nelle zone lontane dai grandi centri urbani”.

Secondo Dabbene, si tratta di una situazione annunciata da almeno vent’anni, cioè da quando si è iniziato a prevedere che “negli anni Venti si sarebbe verificata la cosiddetta gobba previdenziale”. Nonostante questo, prosegue il medico, “non è stata fatta un’adeguata programmazione con un aumento delle borse di studio per la specialità di medicina generale”. E così, quando il maxipensionamento è arrivato, “non c’erano e non ci sono abbastanza medici giovani per prendere il posto di chi va in pensione”. Questo è il problema, spiega Dabbene, a cui si è tentato di porre rimedio con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), “ma nel momento in cui sono state raddoppiate le borse di studio per la medicina generale, di fatto, non si sono trovati abbastanza partecipanti ai concorsi”.

Un’altra ragione della crisi della medicina generale, secondo Dabbene, è legata al post Covid, che ha “in generale ridotto l’appetibilità del lavoro del medico nel campo del Servizio sanitario nazionale (Ssn): è un problema sia sulle specializzazioni ospedaliere sia sulla medicina generale”. La causa profonda, argomenta Dabbene, è il clima sociale “che si è fatto più ostico” nei confronti dei medici: c’è una maggiore aggressività da parte dei pazienti, ma anche una “pretesa di salute a tutti i costi, che comporta richieste pressanti e conflitti in aumento”. Tutto ciò si somma ad un aumento della burocrazia: “La digitalizzazione, per quanto possa sembrare una soluzione, in realtà a volte provoca un appesantimento burocratico”. La riduzione dell’organico, causata dal maxipensionamento, “ha poi fatto sì che per ogni medico di famiglia ci siano più pazienti in carico, elemento che implica un ulteriore appesantimento del carico di lavoro”.

Non giova poi “la percezione di avere poco tempo clinico da dedicare all’ascolto e alla cura dei pazienti rispetto al carico di lavoro di back office“. Inoltre, molti medici di famiglia lavorano “in assenza di personale di studio di tipo amministrativo o infermieristico, oltre che in assenza di diagnostica di primo livello cioè di device che possono essere usati per migliorare le capacità di diagnosi. Questo nonostante ci siano delle leggi che ne prevedono, da almeno cinque anni, il finanziamento e l’utilizzo”.

Tutto questo avviene sullo sfondo di uno dei temi più pressanti per il nostro Paese, che inevitabilmente si riflette anche sulla nostra Regione: l’invecchiamento della popolazione. “Sono aumentati gli anziani, quindi il carico di lavoro è maggiore perché maggiore è la complessità clinica dei pazienti”. Aumentano infatti i pazienti con svariate patologie croniche, i pazienti molto anziani e molto fragili che devono essere assistiti in Residenza sanitaria assistenziale (Rsa) o a domicilio. “Questa complessità fa sì che per ognuno di questi pazienti si debba dedicare molto tempo e quindi il tempo che rimane per i 1500 o addirittura 1800 assistiti è sempre meno” chiosa Dabbene.

Una soluzione parziale, in attesa di coorti di laureati più sostanziose, può essere rappresentata dalle Aggregazioni funzionali territoriali (Aft) introdotte dalla Regione nel 2024. Tra i vantaggi di queste strutture, dice Dabbene, c’è la possibilità di lavorare in équipe e, quindi, di organizzarsi per assistere meglio alcune fasce di popolazione e di utilizzare congiuntamente la diagnostica di primo livello. Anche il personale di studio, infermieristico o di segreteria, può essere a servizio di più medici contemporaneamente, aumentando l’accessibilità ai servizi. Inoltre, “laddove c’è una carenza di medici tale da non garantire la copertura e ci sono pazienti senza medico l’art può creare degli ambulatori al suo interno proprio per i pazienti senza medico. Si tratta di una sorta di attività suppletiva rispetto all’attività ordinaria”. Tutto questo in attesa che il rapporto medico-assistiti torni a essere quello ottimale, che la Regione ha quantificato in 1 ogni 1200.

Articoli Correlati