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Manetti Bros, dal Sottodiciotto al David di Donatello con “Ammore e Malavita”

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Conosciamo meglio i Manetti Bros, i registi che con il loro ultimo film “Ammore e malavita” hanno appen vinto il David di Donattelo.

Prima di Sfera Ebbasta e Ghali c’erano Neffa e Dj Gruff, ma dopo i Manetti Bros nessuno ha saputo raccontare i personaggi e la cultura hip hop come il duo registico romano nella produzione a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. “Torino Boys” e “Zora La Vampira”, tra i primi film di Marco e Antonio Manetti, non hanno soltanto una colonna sonora di culto, ma descrivono un’Italia che cambia (come oggi) parlando il linguaggio dell’antifascismo e dell’antirazzismo (a differenza di oggi). Ecco perché la scelta del Sottodiciotto Film Festival & Campus, che quest’anno ha aperto le porte ai fratelli, non poteva essere più indovinata. Scegliere l’hip hop come tema portante dell’evento significa disegnare una linea rossa che unisce la musica preferita dai giovanissimi, fresca di un nuovo successo, alla golden age degli anni Novanta. Eppure, seguendo quella linea a ritroso, non esiste ad oggi nessun regista in grado di raccontare cosiddetta nuova scuola con la stessa partecipazione dei fratelli romani.

“Quelli dei Manetti erano film consapevolmente hip hop, con una colonna sonora specchio della scena rap italiana degli anni Novanta”, spiega Enrico Bisi, tra i curatori del festival e regista di “Numero Zero – Alle Origini del Rap Italiano”, il documentario del 2015 che tenta di mettere insieme i pezzi di una stagione musicale unica e irripetibile. “Ascoltare gli scratch di Dj Gruff faceva uno strano effetto. Non credo che i Manetti siano riusciti a realizzare dei capolavori, ma il risultato fu abbastanza interessante da risvegliare in noi appassionati una grande curiosità”. Per Steve Della Casa, direttore artistico di Sottodiciotto, la ragione del successo degli autori di Ammore e Malavita sta anche nell’aver saputo mescolare influenze hip hop al fumetto e al cinema di Hong Kong: “Hanno creato in Italia quel che Tarantino ha fatto, con più soldi, ad Hollywood”.

“Zora” e “Torino Boys” sono anche due esempi di cinema militante. Il primo racconta la venuta del rumeno conte Dracula in Italia e l’innamoramento per Zora, writer di un centro sociale di Roma. Il film condanna la violenza di alcune fazioni politiche e i pregiudizi razziali degli italiani attraverso la figura di un capobanda fascista interpretato da Carlo Verdone. Antirazzista è anche “Torino Boys”, il racconto del viaggio di un gruppo di nigeriani dal Colosseo alla Mole. Variety dedicò un articolo al film, giudicando positivamente il tentativo di far luce sulla comunità nigeriana a Roma: “Nonostante gli sceneggiatori registi non facciano esattamente parte del mondo che stanno descrivendo – si legge – neanche si può dire che ne siano completamente estranei: le loro osservazioni sull’essere alieni in un paese ancora relativamente impreparato a scendere a compromessi con l’immigrazione sono sincere”.

“Tutto è più o meno morto con ‘Zora’”, continua Bisi. “Salvo poche eccezioni, I Manetti non hanno dato vita a una produzione di genere”. Uno degli ultimi esempi è “Zeta”, del 2016, il film di Cosimo Alemà con le musiche di Izi, Rocco Hunt, Fedez e altri esponenti della scena musicale contemporanea. Bisi lo definisce studiato a tavolino: “Nasce come operazione commerciale, non dalla cultura hip hop”. Eppure l’Italia di oggi sta sperimenta rapidi cambiamenti culturali, si confronta con problemi di integrazione tra vecchi e nuovi italiani, proprio come il paese rappresentato vent’anni fa nel cinema dei Manetti. Chissà se l’hip hop, tornato ad essere tra i generi più ascoltati, saprebbe raccontare la contemporaneità al cinema. Nel frattempo l’augurio di Bisi è che “qualcuno dei ragazzi presenti al Sottodiciotto decida di approfondire il mondo della musica con un passo indietro. E riscoprire le cose che non dobbiamo definire vecchie, ma belle”.

GIUSEPPE GIORDANO

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