L’occupazione italiana sale, ma il gender gap persiste. Per non parlare delle immense difficoltà per le madri lavoratrici. A sintetizzare lo sguardo d’insieme del mercato del lavoro italiano è la pubblicazione targata Istat Noi Italia che sì evidenzia una crescita complessiva dei tassi d’occupazione nel 2022 al 64,8% (+2,1% dall’anno precedente), ma osserva anche un lampante squilibrio di genere. Mentre gli uomini lavoratori fra i 20 e i 64 anni segnano una fetta del 74,7%, le donne lavoratrici coetanee rappresentano il 55%. Nonostante piccoli aumenti percentuali di anno in anno, c’è poco da esultare. Soprattutto osservando quei dati Eurostat che rimarcano come l’Italia mantenga la maglia nera della disoccupazione alle madri italiane (53,5% nel 2022 a fronte della media europea del 67,4%).
Oltre al rischio di perdere il posto nei due anni successivi alla maternità di due volte superiore rispetto alle donne senza figli, ci sono altre corse a ostacoli per le mamme lavoratrici in Italia: dalle pensioni meno consistenti all’insufficienza di politiche di conciliazione. Oppure, ancora, dalle retribuzioni inferiori fino al passaggio, talvolta quasi obbligato, dal contratto full-time a quello part-time. In quest’ultimo caso, come spiega il report Equilibriste 2023 di Save The Children, lo scenario è desolante: se il 93% degli uomini lavoratori lo fanno a tempo pieno contro il 32% delle donne, appena il 7% degli uomini lavorano a tempo parziale a differenza del 32% delle donne. E proprio fra le lavoratrici part-time si staglia una differenza tra quelle con figli (37,3%) e quelle senza prole (24,2%).
Per quanto a detta del report il Piemonte sia la seconda regione più virtuosa nell’indice “lavoro” sulle condizioni socio-economiche complessive delle madri italiane, c’è chi fa i salti mortali per garantire una vita degna d’esser vissuta ai propri figli. Come Alessia (nome di fantasia per garantire l’anonimato, ndr), torinese e 43 anni, con a carico una “bambina” di 12.La sua storia è una di quelle coinvolte nel Progetto Forza Mamme della Fondazione Specchio dei Tempi, grazie al quale l’abbiamo incontrata.
Alessia e le sue rincorse
“Mi piacerebbe un posto di lavoro con orari fissi – dice Alessia – e uno stipendio che mi consenta di poter gestire il tutto in modo più sereno, senza dover rincorrere nessuno”. A 43 anni, con una figlia da crescere, lei, come altre, deve vivere con meno di mille euro, al prezzo di corse al millesimo di secondo per trovare un punto di equilibrio fra lavoro e famiglia.
Nelle vesti di addetta alle pulizie dallo stipendio netto di “700 euro, di cui 600 mi servono per pagare l’affitto”, Alessia è una delle “equilibriste” dell’ultimo rapporto Save The Children sulla situazione della maternità in Italia, rientrando in quello striminzito 63% delle donne italiane con un figlio che lavorano (per gli uomini italiani nella stessa condizione si tocca la soglia del 91%). E, soprattutto, riflette le criticità inflitte dal Covid-19 sul panorama lavorativo italiano. A rincarare la dose è uno studio di Bankitalia, secondo cui le retribuzioni mensili delle donne italiane sono deteriorate del doppio rispetto a quelle degli uomini durante il periodo pandemico. A molte poi è andata certamente peggio visto che nel solo 2020 in Italia le donne in generale hanno perso oltre 70mila posti di lavoro.
“Con la pandemia – racconta Alessia -, praticamente mi sono ritrovata senza lavoro. Lavoravo in Città metropolitana e hanno deciso di mettere tutti in smart working. Ho dovuto accettare due anni di disoccupazione”. E una volta finita l’emergenza? “Mi sono trovata tutto sulle spalle – continua – con un affitto da pagare, il sostentamento di mia figlia da sola visto che il mio ex marito era stato licenziato e non mi girava più alcun mantenimento. Per questo, ormai ci vediamo più in tribunale che fuori casa e finora mi sono giocata cifre assurde in avvocati”.
Da quel momento Alessia ha cominciato a chiedere sostegno alle associazioni cittadine, anche solo per un pacco alimentare una tantum. “L’ho fatto per la mia bambina”, sussurra mentre lo sguardo si abbassa lievemente. Affiorano le esigue risposte alle sue richieste d’aiuto avanzate nel tempo. Ferite ancora aperte e dolenti per Alessia. Come quando aveva partecipato all’assegnazione di un alloggio popolare. “Era il 2015 e al mio ex marito allora era stato esportato un rene – spiega Alessia -. Gli avevano accettato la disabilità e per me era un periodo difficile col lavoro. Decisi di partecipare al bando generale per un alloggio popolare, ma nonostante la situazione economica e familiare, avevamo ottenuto solo otto punti”.
Mille lavori fino alla maternità
Alessia si morde il labbro inferiore, si asciuga le lacrime e resta composta sul suo posto. “Vuoi un caffè?”, chiede. Poi, con premura, apre una cialda e pone una tazzina sotto la macchinetta sulle note di un vecchio disco di Biagio Antonacci. Dosa il volume. E intanto aspetta, in quell’unica zona della cucina dove non arriva la luce. È pomeriggio, dalla finestra principale del suo bilocale si sente solo il fruscio del vento. Sorride, un po’ intimidita, finché la miscela non ha finito di scendere nel bicchierino. Pochi secondi ancora e si riavvicina al tavolo per accomodarsi al suo posto.
Dietro la montatura degli occhiali, Alessia ha uno sguardo diretto, tenace. Di quelli che trasmettono sincerità. Torinese di nascita, origini sicule, è da 30 anni che si arrabatta in mille mestieri diversi: “Ho cominciato a lavorare facendo la qualunque – si racconta -, dalla commessa alla banconiera al bingo e l’estate facevo le stagioni al mare. A 14 anni facevo le consegne in furgone con mia mamma che ormai aveva preso le redini economiche in famiglia visto che “papà si era ammalato d’artrite e, dopo un anno in ospedale, ha dovuto fermarsi definitivamente dal lavoro”.
È il periodo dove “c’erano sempre problemi economici”, ricorda Alessia. Quando ha sentito il dovere di saltare dall’infanzia al mondo adulto, lasciandosi alle spalle “il sogno di diventare una poliziotta”. In questo modo, Alessia si è gettata nella ristorazione: cameriera, banconista, barista. Poco importava il ruolo, bastava portare un sostegno concreto a casa. Infatti, anche il fratello di Alessia, di tre anni più grande, aveva iniziato a dare una mano, prima come barman e dopo lanciandosi nel lavoro di fabbrica. “Dalla fine della terza media – prosegue Alessia -, ho sempre lavorato. Nel settore della ristorazione ci sono rimasta diciassette anni. Giusto il tempo di arrivare ai trenta, quando era alimentata in me la volontà di diventare madre”. Una volontà legata al forte attaccamento all’idea di famiglia come nido sicuro, dove ogni rapporto umano è viscerale. “Mi piacerebbe costruirne un’altra in futuro – confessa -, però non adesso. Non mi serve di certo un uomo che mi mantenga. Sono concentrata esclusivamente su mia figlia e sto bene così”.
“Tutto quel che faccio è per lei”
La sua bambina. Su una mensola sopra il divano, c’è una sfilza di foto che la ritraggono spensierata, nel pieno dell’infanzia. “È sveglia, molto attenta – rimarca Alessia -. Quando sono triste, se ne accorge e punta sempre a farmi ridere. Vedo che è serena da come disegna e sa stare bene in compagnia”. Subito dopo, Alessia indica una cornice con un velo di nostalgia. “In quella eravamo insieme allo zoo, guarda come sorride”. Una parentesi di allegria che ad Alessia sembra lontana nel tempo, forse perché l’attuale posto di lavoro la sta bloccando nella dimensione del qui e ora.
A questo proposito, Alessia ha contattato la fondazione Specchio dei tempi per essere inclusa in Forza mamme. Un programma attivo da cinque anni con durata annuale (da ottobre a maggio) che coinvolge un centinaio di madri lasciate al proprio destino. Sole, abbandonate e con redditi annuali striminziti (al di sotto dei 15mila euro). Secondo i dati a disposizione della fondazione, ogni edizione di Forza mamme garantisce un impatto diretto di oltre 1.200 euro annuo a persona. E in tutta la città di Torino ha portato 288mila euro, incluse le parti non contabilizzate.
Una scelta mossa dal “voler garantire il meglio per mia figlia – spiega Alessia -, la mia gioia più grande. Tutto quel che faccio è per lei”. Sua figlia ha da poco dodici anni e ha appena finito il suo primo anno di scuola media. “È passata al secondo anno con voti splendidi – commenta Alessia, senza nascondere il suo orgoglio -. Studierà lingue in futuro, me lo sento. Ha tutti 9 e 10 in inglese e francese”.
Il valore della famiglia
Ecco, a questo punto Alessia appoggia dolcemente lo smartphone sul tavolo e mostra la foto con l’altra persona più importante della sua vita: suo padre. Elegantissimi, lei lo avvolge in un abbraccio essenziale durante una cena. “Ora ha 73 anni – dice Alessia -. L’anno scorso gli hanno trovato un tumore. Da quel momento ho perso 19 kg, avevo quasi smesso di mangiare”. Ma rassicura: “Ne ho ripresi tre ultimamente, non demordo”. Alessia poi non nasconde il sostegno che la famiglia le continua a dare con la figlia mentre sta lavorando. “I nonni sono importantissimi – commenta -, così come mio fratello che a volte tiene mia figlia il fine settimana quando ho i turni serali. Altrimenti, ci sono persino le mie amiche, anche loro separate e con figli a carico, e facciamo tutt’uno, aiutandoci l’una con l’altra”.
A rimarcare l’importanza dei familiari, soprattutto dei nonni, nella cura dei figli è Bruno Arpino, professore di Statistica all’Università di Firenze. “In Italia il contributo dei nonni, soprattutto delle nonne – spiega Arpino -, è fondamentale per le madri al fine di restare nel mercato del lavoro e mantenere un certo numero di ore lavorative. Mentre l’aiuto sporadico in termini di percentuali di ore e impegno è allineato a paesi come Francia e Germania, la cura intensiva vede il paese ai primi posti in Europa. Questo anche perché i nonni sopperiscono le carenze del welfare state nazionale”.
Ciò che Alessia sente le sia stato negato per una vita intera. Così come la realizzazione dei suoi desideri tipo “diventare una poliziotta”. È realista, a tratti cinica persino con sé stessa. Appena però alza lo sguardo verso le foto o i souvenir disposti a giro per la cucina, si scioglie. Mentre scruta una statuina di Tutankhamon, barlumi di sogni riemergono: “Mia figlia ed io abbiamo fatto due soli viaggi, uno in Egitto e l’altro in Tunisia. Ci piace il mare e goderci il sole. Ammetto che sono state le più belle esperienze della nostra vita. Quando ce la farò andremo insieme la Sardegna”.