Dei fratelli Dardenne, al Salone del Libro, c’è solo Luc. Dialoga con lo psichiatra Vittorio Lingiardi e racconta che, da sempre, i due registi hanno in mente di dare vita ad un film che racconti la loro infanzia. “Si potrebbe chiamare ‘Padre nostro’ oppure ‘17 ricordi’. Per adesso è un progetto, niente ancora di girato”. Ma Luc Dardenne sa già come inizierà. Nel suo ultimo libro “Immagini addosso” racconta i dettagli delle prime scene: “Mi piacerebbe che quel film iniziasse con uno schermo nero. Poi luce: si vedono due ragazzini in una camera, sono in pigiama e sono vicino ai rispettivi letti. Spengono e accendono l’interruttore, in un’alternanza di luce e buio. E poi una voce fuori campo direbbe ‘litigavamo ogni sera’”. Eppure, sono stati bravi a trovare accordi perché la carriera dei fratelli Dardenne ha regalato pellicole che hanno conquistato sia il pubblico che la critica. Da ultimo, lo scorso maggio, a Cannes hanno ritirato il Premio speciale della 75edizione per il film “Tori e Lokita”.
Il regista parla con Lingiardi di esperienze, tecniche e visioni. Descrive come la camera si muove sul set per raccontare la vita nella sua fragilità e nella sua potenza: “Prendiamo ad esempio, le scene di spalle. La schiena è importante, racconta molto di un personaggio, è come il viso o le mani. È una cosa che in realtà deriva dal teatro: prima non si faceva, dare le spalle al pubblico era inaccettabile. Invece il teatro moderno inizia quando ci si mette di schiena, cosa che nel cinema aiuta a dare volume al personaggio. Ed è possibile percepire il respiro del corpo”.
La fisicità è un elemento fondamentale nel cinema dei fratelli Dardenne: “Il corpo non è un oggetto, è qualcosa di vivo e mortale. Ci piace filmare questo. Mi viene in mente una frase di Nanni Moretti, che quando gli fu chiesto quale fosse il suo stile rispose con una frase di Eduardo De Filippo: ‘Chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita trova lo stile’. Anche noi cerchiamo di fare questo”.
“Uno stile mai studiato a tavolino, ma un corpo a corpo con la storia che dovete narrare” aggiunge Vittorio Lingiardi, che riprende alcune pagine del libro “Immagini addosso”. La sua materia è ben presente perché psicanalisi e cinema non sono poi mondi così distanti. Anzi, sono nati nello stesso momento storico, alla fine del XIX secolo. I primi scritti di Freud sono dello stesso periodo dei lavori dei fratelli Lumière, e in entrambi casi il tentativo fu quello di rispondere all’aumento delle nuove pulsioni aggressive e autodistruttive della società. “Il cinema serve a trovare una strada nel labirinto del senso di morte, è pieno eros – spiega Dardenne -. Con i fratelli Lumière appare nella storia dell’umanità qualcosa che si differenzia dalle altre arti perché il cinema racconta la vita che non abbiamo mai visto. Il cinema è relazione con la vita, che è la cosa più preziosa”.
Durante il covid questa percezione si è fatta ancora più forte. Dardenne dà uno spunto ai registi: dice che non ha ancora visto nessun film che racconti di quello che è accaduto negli ospedali e che gli piacerebbe vederlo. Ma in una pellicola, certo non in una serie televisiva. “Sono due cose totalmente differenti. Le serie televisive sono narrazione in eccesso: sono troppo costruite, troppo scritte. Ovviamente c’è una concorrenza e in Belgio si è trovata una soluzione per questo. I film co-prodotti da Netflix, ad esempio, prima di passare sulla piattaforma passano dal cinema”. Sottolinea l’importanza della tutela del cinema, realizzabile solo tramite leggi che la possano consentire. Perché non può essere solo consumo: è la magia di sedersi in sala e perdersi in una storia in cui, come dice Dardenne, “c’è tutta una vita che si sviluppa”.