“Mi è bastata una mezza giornata per perdere il nome e diventare un numero. Ero solo un 189488”. Comincia così il racconto di Oleg Mandić, l’ultimo bambino sopravvissuto ad aver chiuso i cancelli che racchiudevano l’orrore del campo di sterminio nazista di Auschwitz. All’epoca aveva 12 anni. Oggi ne ha 87 ed è tutto impresso nella memoria, come fosse accaduto ieri. Con una differenza: oggi Oleg ha imparato a sopprimere l’odio che ha provato per i suoi aguzzini fino al raggiungimento della sua maturità. “Mi hanno rubato la vita, l’infanzia. Aumentava in me l’astio, che diventava odio. Ma poi – racconta Oleg – arrivato ai 18 anni, mi dicevo: sono una persona colta. Questa catena di odio può portare ad una nuova Auschwitz. Così sono riuscito a comprimere quel sentimento negativo e da allora a oggi non ho più provato odio. Non ho odiato più nessuno”.
Oleg Mandić è stato ospite questa mattina, 27 gennaio, dell’associazione “Il treno della memoria”, al Pala Ruffini di Torino, davanti a migliaia di giovani liceali.
I lager nazifascisti non sono come ce li rappresenta la filmografia romanzata moderna. Sono il prodotto della fredda tecnica, tutto scientificamente organizzato. “Nei campi si è compiuta l’industrializzazione della morte – osserva Mandić – Tutto funzionava automaticamente. Il problema che si ponevano i vertici tedeschi era come liberarsi, nel minor tempo possibile, dei cadaveri. Si volevano sterminare i dodici milioni di ebrei europei. I campi di sterminio nacquero per risolvere il problema. La crudeltà dunque non sta nel singolo atto di uccisione di un nazista contro il prigioniero. La vera crudeltà sta nel fatto che migliaia di anni di cultura e di avanzamento dell’umanità, fossero serviti per mettere in piedi una vera industria di morte. Tutto era tecnicamente programmato affinché la vita di un prigioniero non durasse più di sette mesi, soprattutto per lasciare spazio a chi sarebbe arrivato dopo”.
L’immagine che non si cancella dalla mente di Oleg è quella del nastro trasportatore che portava il “prodotto finito” alla morte, alla cenere finale.
Qualcuno, tra i nazisti e i prigionieri, si è ribellato? C’è stato spazio per un barlume di umanità? E anche in questo caso la filmografia non restituisce la reale fotografia dell’epoca. “Assolutamente no – risponde il signor Mandić – nei miei nove mesi di prigionia non c’è stato spazio per nulla. Solo indifferenza. Tutti quanti, prigionieri compresi, se ne fregavano di tutto e di tutti. Si andava avanti per senso di sopravvivenza”.
Oleg racconta l’episodio dell’appello mattutino, uno dei momenti più terribili della giornata. “Una prigioniera non si svegliò e non si presentò all’appello. Per ‘colpa’ sua ci fecero stare in piedi all’aperto, sotto la pioggia e con i calzari nella melma tutta la giornata. La nostra vita si era accorciata quel giorno. La signora che non si svegliò fu poi presa dagli aguzzini e massacrata di botte. Ma sono sicuro che se ci avessero dato un manganello tra le mani l’avremmo uccisa anche noi prigionieri. I valori erano tutt’altro che umani lì dentro”.
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