La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Linea 77: “Meno rabbia, troppo disagio: la musica alternativa è cambiata”

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Per una band c’è un momento: quello in cui ci si libera dall’ossessione spasmodica di svettare nella classifica e ci si riappropria del divertimento. Della sensazione di salire sul palco per spaccare e non per conquistare, e si diventa consapevoli che alla fine «non hai nulla da perdere». Forse non sarà così per tutte le band che sono riuscite a uscire dalla nicchia; di sicuro è accaduto ai Linea 77.

Abbiamo attraversato tutte le fasi: all’inizio sul palco era come guardare in uno specchio, erano nostri coetanei. Nel tempo, poi, molti sono rimasti, altri sono andati e tanti si sono aggiunti. Certo, sappiamo di non essere più contemporanei ma questo ha aspetti fantastici: è una figata divertirsi senza l’ansia delle classifiche. Come liberarsi da un peso. Una componente essenziale dell’approcciarsi alla creatività musicale: quanto più è libera dai condizionamenti di qualsiasi tipo, più è vera e spontanea”.

A rispondere è Paolo Pavanello, (solo Chinaski per i fans più accaniti), alla vigilia del loro live il primo aprile sul palco del CAP10100 in occasione del sesto compleanno di INRI, etichetta torinese di musica indipendente, che divideranno con i Cibo e i Voina.

Tra Youtube e Facebook c’è spazio per la musica indipendente?

Direi decisamente di sì, ci sarà sempre. Non è in contraddizione con il nuovo modo di fornire la musica. Anzi, lo spirito della musica indipendente parte proprio dal principio di farsi le cose da soli. Il web potrà solo facilitarlo. Le difficoltà riguardano il margine di utile che è stato eroso, portando alla necessità di rivedere il modello di business”.

In quest’ottica a chi acquista il biglietto del concerto consentite di scaricare il download dell’ultimo album? Insomma, è un modo per competere con Spotify e iTunes?

“L’iniziativa della prevendita su Inri store è fondata sul principio di autosostenersi. Puoi farlo, eviti intermediazioni e costi aggiuntivi. Anche perché in Italia si penalizza la fedeltà dei fans. Noi così ci divertiamo e facciamo un regalo ai fans, per di più senza inquinare”.

La musica “non indipendente”, invece, è davvero finita come cantate in una delle vostre canzoni?

“È soggettivo, la mia opinione sulla musica italiana è negativa. Anche quella indipendente. Forse da “matusa” noto la mancanza di pulsioni rabbiose delle mie origini punkrock e hardcore. Mentre da un paio di anni nella musica alternativa quello che funziona è il disagio, l’autocommiserazione come comune denominatore. Ora prevale la logica che è figo stare male. La musica, invece, ha sempre risposto al disagio con un dito medio: ogni fenomeno musicale, da Elvis ai Daft Punk, è nato come reazione a quello precedente”.

La speranza, quindi, è davvero una trappola?

“No, è il motore propulsivo di ogni cambiamento ed è implicita nella nostra natura. Se non ce l’hai cadi nell’autocommiserazione, accetti passivamente lo stato di cose. Noi abbiamo scelto di utilizzare questa frase di Monicelli per omaggiare lui, la sua storia e la sua vita. Lui stesso in quell’intervista del ’92 sollecitava a reagire. Era come dire: non mettetevi in fila con il cappello in mano”.

Passando alla vostra musica: “Oh!” è stato l’album del ritorno, in primis alle sonorità ma anche ai tempi lontani (avete citato i Ramones). Una domanda sorge spontanea: vi resta ancora qualcosa da scoprire o il vostro percorso è saturo?

“Non amiamo approcci pregiudiziali. Ogni disco riflette perfettamente lo stato d’animo del momento in cui è stato scritto, per “Oh!” è stata una questione identitaria. Venivamo da un periodo umanamente travagliato e duro con l’uscita di Emi. Avevamo bisogno di fare spogliatoio e squadra. Poi chiaramente non ci autoghettizziamo tra chitarre elettriche e casse”.

Da Ungaretti a Orwell, gli ultimi album sono tutti in italiano e densi di citazioni, è una scelta?

“Sì, all’inizio era più usuale fare i tour in Inghilterra e vedevamo persone che tentavano goffamente di cantare Moka, unica canzone in italiano. In quella dimensione aveva un senso scegliere l’inglese. Nel momento in cui per questioni di vita e scelta ti riferisci al pubblico del tuo paese la questione cambia. E poi, banalmente, scrivere una canzone in italiano è estremamente più difficile. Per Moka ci mettemmo quasi il tempo che è servito per scrivere il resto di Ketchup Suicide. Per le citazioni è un po’ voler sfatare il video che punk e hardcore siano lontani da capacità auliche”.

“Vorrei far esplodere quell’ansia di sbagliare” cantate nell’ultimo album: voi ci siete riusciti con la musica?

“Sì, tranne Nitto. Siamo quasi a mille concerti e lui ancora va in tensione prima di salire sul palco, tensione funzionale allo spettacolo. L’ansia di sbagliare è più generazionale, in linea con l’atteggiamento rinunciatario di cui parlavo prima”.

Ad oltre venti anni di carriera, avete ancora sogni nel cassetto o è stato già fatto tutto?

“I sogni ci sono ma abbiamo anche tante consapevolezze. Molti di noi sono genitori, un cambiamento destabilizzante che ti impone di ricalibrarti. Per il resto diciamo che c’è un po’ di disillusione: prima nella top ten italiana accanto alla Pausini trovavi RATM e Korn, oggi no. Ora il rock è una riserva indiana, con l’indie cantautoriale che ti permette di abbracciare tanto pubblico senza chitarre distorte. Per quanto riguarda il futuro, ci ritroveremo dopo l’estate, ad ottobre (periodo in cui solitamente ci riuniamo) e faremo il punto. Per ora, tra dinamiche personali, bimbi in arrivo, Dade con Salmo e Tozzo con Samuel faremo poche cose”.

CRISTINA PALAZZO