La cittadinanza dopo anni da profugo: il lieto fine di Enaiatollah Akbari

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Nel mare i coccodrilli non ci sono più. La storia di Enaiatollah Akbari, il giovane afghano che lasciò il suo Paese da bambino, ha finalmente un lieto fine che è, per lui, anche un nuovo inizio. Dopo un’infanzia e un’adolescenza passate in viaggio, lontano dalla famiglia, combattendo la fame, la nostalgia di casa, le condizioni precarie e lottando ogni giorno per la vita, Enaiatollah ha ottenuto la cittadinanza in Italia lunedì 7 marzo a Torino. All’età di 33 anni. Il viaggio dalla sua terra d’origine, l’Afghanistan, inizia a nove anni e prosegue, nella prima fase dell’adolescenza, in Pakistan, Iran, Turchia, Grecia e infine Italia. La sua storia è diventata celebre grazie alle pagine del libro “Nel mare ci sono i coccodrilli”, scritto da Fabio Geda nel 2010.

Dopo quattro anni dalla domanda di cittadinanza, richiesta nel 2018 in quanto rifugiato politico, oggi Enaiatollah è ufficialmente un cittadino italiano e torinese. “Non sono nato qui effettivamente, ma intellettualmente sì”, afferma con fierezza. Inizia a studiare a 16 anni e ottiene il diploma di laurea. “Quando sono arrivato in Italia da adolescente, il mio cuore ha intuito ancora prima della mia testa che questo era il posto giusto. Mi sono sentito accolto. Mi sono sentito bene”.

I suoi progetti per il futuro adesso sono molto chiari: continuare ad “andare in giro per il Paese sensibilizzando sul tema dell’immigrazione, affinché non cali il silenzio sul tema dei profughi”, dice.

Enaiatollah Akbari è ufficialmente un cittadino italiano (foto di Fabio Geda)

Le origini hazare

Enaiatollah nasce in un villaggio dell’Afghanistan. Vive con la madre, il padre, la sorella e il fratello minore. Fin dalla nascita, il suo destino sembra già essere segnato. “La mia famiglia appartiene all’etnia hazara, che viene da secoli perseguitata da quella pashtun, di cui fanno parte anche i talebani, per motivi che giudico stupidi, ingiustificabili e inventati – racconta -. Secondo l’etnia pashtun noi non siamo afghani puri. Prima di tutto, per via dei caratteri fisionomici differenti: ci dicono che discendiamo dal condottiero e sovrano mongolo Gengis Khan che distrusse e conquistò l’Afghanistan. Per questo, dobbiamo essere puniti”.

Nel 1893, il 60% della popolazione hazara fu sterminato in un genocidio ordinato dal capo pashtun Abdul Rahman e, nel 2001, gli hazara furono vittime di una pulizia etnica da parte dei talebani. “Non siamo sunniti come i pashtun, ma musulmani sciiti – continua -. Secondo loro, non meritiamo di vivere e dobbiamo essere eliminati”.

Dopo il 1996, anno in cui si afferma il regime talebano, la vita di Enaiatollah è in pericolo. “Mio padre era costretto a fare viaggi dall’Afghanistan all’Iran, trasportando merci per una ricca famiglia pashtun che non parlava iraniano e che si serviva di mio padre per la lingua – racconta –. Gli hazara, infatti, parlano un dialetto persiano, molto simile all’iraniano. Un giorno, l’auto su cui viaggiava mio padre finì su una bomba. Nessuno si salvò, neppure lui. Dopo la sua morte, io rappresentavo il risarcimento del danno che i talebani pretendevano e reclamavano”.

Il viaggio solitario

A soli nove anni si ritrova a dover mettere da parte la spensieratezza, il gioco. “Sapevo che i talebani mi cercavano. Così, ogni volta che qualcuno suonava alla porta, io e mio fratello andavamo a nasconderci in una piccola fossa sotto terra in un campo di patate vicino a casa. Un lamento o starnuto in più potevano trasformare quel rifugio nel luogo più pericoloso”, racconta.

Pakistan

“Mia madre voleva per me un futuro migliore – continua –. Un giorno siamo partiti, solo io e lei, per il Pakistan. Ci siamo ritrovati in una città molto affollata, Quetta, dove siamo rimasti per qualche giorno. Una mattina, al mio risveglio mamma era sparita: era tornata a casa da mio fratello e mia sorella”. Abbandonare un figlio per salvargli la vita: quello della madre di Enaiatollah fu un grande e tragico gesto d’amore. “Ho vissuto in Pakistan per mesi e anni facendo diversi lavori: sbucciavo patate, pulivo per terra, vendevo fazzoletti, lavavo vestiti. Alla fine del turno di lavoro, andavo a mangiare in una moschea hazara che rappresentava per me una seconda casa, un rifugio, un luogo di protezione. Un giorno non andai, non ricordo il perché. Ma fu un miracolo. Sentii un rumore fortissimo: nella moschea c’era stato un attentato in cui morirono più di 200 persone. Mi resi conto che la mia vita era in pericolo. E così partii per un viaggio clandestino verso l’Iran”.

Iran

Resta in Iran per tre anni, tra mille difficoltà, lavorando come muratore. “I soldi che guadagnavo – dice – li dovevo tutti al trafficante di uomini al quale mi ero appoggiato: viaggiare era impossibile, se non pagando a caro prezzo i trafficanti”. Enaiatollah è costretto a partire di nuovo, dopo che alcuni poliziotti iraniani armati tentano di ucciderlo. “Mi nascosi nel doppio fondo di un camion insieme ad altre 70 persone – racconta -. Avevamo una bottiglia d’acqua per bere e una in cui fare i nostri bisogni. Eravamo appiccicati, tanto che non riuscivamo a muoverci”.

Turchia

“Arrivammo in Turchia, a Istanbul, stipati dentro il furgone – spiega -. Ci scaricarono come sacchi di patate, inermi. I nostri muscoli erano completamente atrofizzati. Ero felice di trovarmi in Turchia, perché sapevo che la polizia non torturava i profughi, come accadeva in Iran. In quegli anni, Istanbul si stava avvicinando alla cultura europea: non esisteva più il concetto di lavoro e sfruttamento minorile. Io, che ero un bambino, dovevo fare l’elemosina per sfamarmi”.

Grecia

Insieme ad altri cinque profughi bambini, Enaiatollah si sposta in Grecia. Al suo arrivo, resta affascinato da qualcosa che non aveva mai visto così da vicino: il mare. “Non avevamo idea di cosa significasse guardare il mare da vicino – sorride –. E soprattutto non sapevamo che l’acqua marina fosse salata. Uno di noi diceva: ‘Hanno avvelenato il mare! Vogliono ucciderci!’ Da qui è nato il titolo del libro di Fabio Geda. Temevamo che nel mare della Grecia ci fossero i coccodrilli”.

In quegli anni, dopo il 2003, vigeva il Regolamento di Dublino II, basato sul principio del primo paese d’arrivo, secondo il quale lo stato responsabile per l’esame della richiesta d’asilo all’interno dell’Unione europea era quello d’ingresso.

“Lavoravo in nero come muratore per costruire stadi in vista delle Olimpiadi di Atene del 2006 – ricorda –. Ma sapevo che di lì a poco me ne sarei dovuto andare. Stando alle disposizioni del Dublino II, avrebbero dovuto prendermi le impronte digitali per il tracciamento. Ero terrorizzato da quelle manette invisibili, perché sapevo che non mi avrebbero permesso di lasciare più quel Paese. Mi sono nascosto nel doppio fondo di un camion parcheggiato dentro una nave. Non avevo idea di dove fosse diretta”.

L’arrivo in Italia

“La nave su cui mi ero nascosto attraccò al porto di Venezia – afferma Enaiatollah – e il furgone in cui ero nascosto entrò all’interno di un cortile privato. Una volta sceso, rimasi colpito dalla gentilezza delle persone: nessuno mi sgridò né mi urlò dietro, come spesso era accaduto in passato. Anzi, due uomini mi indicarono la strada per fuggire. Questo significò tantissimo per me. Girovagai per le strade, ancora inconsapevole della città in cui mi trovavo”.

Tra le vie di Venezia, Enaiatollah conosce un giovane italiano. Quell’incontro cambia tutto. “Io non conoscevo né l’italiano né l’inglese e non sapevo in che modo comunicare. Ma siamo riusciti comunque a capirci. Lui mi ha preso sotto la sua ala per un giorno intero, mi fece fare una doccia e mi accompagnò a scoprire gli angoli di Venezia. Io dell’Italia conoscevo solo Roma. Questo ragazzo lo capì e, inaspettatamente, mi regalò un biglietto per la capitale. A lui devo molto, perché quel giorno rinunciò alla sua quotidianità solo per me”. L’Italia è, per Enaiatollah, una nuova casa: calda e accogliente.

Il rapporto con la famiglia

Enaiatollah non ha più incontrato i familiari dal vivo: l’ultima volta fu poco prima di lasciare l’Afghanistan da bambino. Nonostante la distanza, però, il loro legame non si è mai spezzato. “Siamo tre fratelli in tre continenti diversi: la sorella in Pakistan, il fratello in Australia – dice –. Sono molto legato soprattutto a mia sorella e ai miei nipotini. Sono la ricchezza della mia vita”. Adesso, il desiderio più grande è “poter viaggiare in libertà e, ovviamente, tornare dalla mia famiglia”.

 
 
 
 
 
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