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Le lezioni dei big della tecnologia per creare una startup di successo

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Creare una startup innovativa e portarla al successo mondiale usando le moderne tecnologie: la sfida non è semplice, ma i suggerimenti sono ben accetti. Li hanno dati il 7 giugno i fondatori e gli amministratori delegati degli “Unicorni”, le nuove aziende in tutto il mondo valutate più di un miliardo di dollari, al convegno organizzato dalla School of Entrepreneurship and Innovation (Sei, la Scuola di imprenditorialità e innovazione).
I grandi “guru” della Silicon Valley hanno fornito spunti di riflessione sui problemi a cui gli imprenditori possono andare incontro durante la gestione delle startup: dalla nascita e i primi passi per far accrescerne il valore alla ricerca di stabilità sul mercato, alla scelta dei dipendenti e gli investimenti da operare.

A fare gli onori di casa John Elkann, presidente della Fondazione Agnelli che ha creato la Sei, e Diego Piacentini, commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale del Governo Italiano. Tre i dibattiti che hanno catturato l’attenzione del pubblico in gran parte formato da studenti e giovani imprenditori, che hanno potuto inviare le proprie domande tramite la piattaforma Sli.do.

Come iniziare? Bisogna certamente essere preparati e credere nel progetto e avere una grande ambizione. È la prima chiave del successo di una startup secondo Peter Thiel, cofondatore di PayPal, ma questa ha un’ascendenza verso il pubblico diversa a seconda della regione geografica. C’è un divario tra le compagnie tecnologiche negli Stati Uniti e quelle in Europa nel contributo al pil: quelle oltreoceano valgono circa tre volte quelle europee. Secondo Thiel, tedesco emigrato negli States da piccolo, tutto deriva dal problema culturale riguardante l’ambizione: “Non è vista in Europa come negli Stati Uniti. Forse Mark Zuckerberg non avrebbe avuto lo stesso successo se avesse creato Facebook in Europa“.

Reid Hoffman, il creatore di LinkedIn, ha sottolineato un altro aspetto, quello dell’immigrazione, esterna e soprattutto locale: molti studenti di Harvard hanno cambiato costa e sono arrivati in California, terra della grande rivale Stanford, per implementare le loro idee di startup, arricchendo ancora di più la Silicon Valley.
Ogni giovane startupper porta una propria cultura che deriva sia dalle sue origini che dalla formazione accademica e nell’incontro con i colleghi contribuisce a creare la vision e la mission dell’azienda, e da lì seleziona i collaboratori per crescere. A loro si è rivolto Riccardo Zacconi: il fondatore di King.com, da cui è nato il popolare videogioco per smartphone Candy Crush, ha ricordato che “sei tu che fai la cultura dell’azienda, non aspettarti che lo faccia il capo. E siccome quando cresci aumentano il rischio e la paura del fallimento, è in quel momento che devi lavorare di più”.

Per crescere e stabilizzarsi sul mercato l’imperativo su cui concordano tutti è “Go fast!” (Vai veloce!), ma a volte spingere sull’acceleratore può trarre in inganno. “Può succedere che gli imprenditori confondano questo con il fare molte cose. No, basta farne una, ma bene e velocemente per guadagnare posizioni”, ha spiegato Matt Cohler, l’investitore venture-capitalist partner di Benchmark ed ex vicepresidente del product management di Facebook.

I problemi? Possono riguardare l’organizzazione interna e superarli può essere “un ottimo punto di partenza per arrivare al successo”, ha notato Luciana Lixandru di Accel. Uno di questi è l’incagliarsi su un aspetto che ha bisogno di una visione più ampia, perciò secondo Xavier Niel – fondatore della compagnia telefonica Free Mobile, sbarcata in Italia nei giorni scorsi come Iliad – “abbiamo bisogno di una rappresentanza mista dei dipendenti sia per formazione che per etnia e genere”.
Infine, le possibili critiche sulla produzione, i costi del lavoro e i posti di lavoro. Peter Thiel ha notato che la globalizzazione e le tecnologie sono bersagliate in modo quasi intercambiabile, invece “molte volte i problemi che attribuiamo alla tecnologia sono posti dalla globalizzazione” e “il linguaggio utilizzato nella Silicon Valley non aiuta a trovare una soluzione”.

ARMANDO TORRO