Il fazzoletto azzurro e bianco intorno al collo, simbolo della reclusione nei lager nazisti, un libro di testimonianze in mano. Lucio Monaco, parte di ANED – Associazione Nazionale ex Deportati nei Campi nazisti, ha ricordato la storia di tre partigiani-operai della sezione Fiat di Corso Ferrucci, dove già oggi sono iniziate le commemorazioni del settantotesimo anniversario della Liberazione: “Siamo abituati alla Resistenza partigiana come andare in montagna, ma la Resistenza forse più pericolosa e insidiosa era quella che si svolgeva nelle fabbriche”. Quel fazzoletto fu indossato da numerosi operai torinesi della Fiat che con coraggio presero parte alla Resistenza antifascista e con gli scioperi delle fabbriche torinesi del marzo 1943 anticiparono l’inizio della lotta partigiana: “Fu il punto di separazione, di divorzio non più sanabile tra il regime di Mussolini e il Paese”, ha sottolineato Monaco.
Entrando nell’ex stabilimento Fiat, sulla destra sono cinquantaquattro i volti che si osservano sotto la lapide voluta dai colleghi sopravvissuti al nazi-fascismo. Di questi, furono ventinove i deportati. Lucio Monaco immagina la commozione degli operai: “Doveva essere una grande emozione per i lavoratori, subito dopo la guerra, passare davanti ai volti che conoscevano e con cui avevano lottato insieme”. Erano tutti, eccetto uno, parte della quarta brigata delle Squadre di azione patriottica che partecipò alla liberazione di Torino difendendo lo stabilimento Fiat dagli attacchi esterni e combattendo contro i presidi fascisti tedeschi che avevano predisposto la distruzione della fabbrica. Dalla lapide, posizionata lì nel ‘46 e mai più spostata, durante le commemorazioni sono emerse tre storie di operai deportati raccolte e approfondite da ANED. Tre i nomi: Bernardino Manzara, Ernesto Cattana, Ezio Marocchino.
Due generazioni rappresentate dalle tre storie. Manzara e Cattana facevano parte dei nati fino al 1905, dei cosiddetti antifascisti storici, che ebbero esperienza della strage di Torino del 1922, una serie di omicidi commessi dalle squadre d’azione fasciste. Con coraggio, cautela e prudenza insegnavano, in fabbrica, l’antifascismo agli operai più giovani . Ai più giovani come l’operaio Ezio Marocchino che morì a soli vent’anni a causa del lavoro in una cava di pietra del campo di Mauthausen. “La cava di pietra è la peggior sorte che possa capitare. La fatica brucia in pochi giorni le energie di un ventenne”, così scrive il superstite dei campi Felice Malgaroli, grazie a cui si è conosciuto il destino di Marocchino.
Per tenere vivo il ricordo, ANPI e ANED stanno lavorando ad un qr code o un sistema di cartelloni per far conoscere le biografie degli operai-partigiani morti in montagna, nei campi di nazisti o negli stessi giorni delle mobilitazioni operaie.
“Abbiamo un compito di memoria per due ragioni: il passato va ricordato specialmente quando le persone del passato ci danno degli esempi di valori etici di resistenza. La seconda è che io mi vergogno fortemente della situazione che stiamo vivendo e mi sento, in un certo senso, responsabile nei confronti di queste persone dell’aver permesso che si realizzasse ciò che sta accadendo ora nel mondo”, la riflessione di Monaco ha chiuso così la commemorazione.