La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Lavoro da casa pregi e difetti. Che cosa resterà?

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Si valutano i benefici ma anche i rischi

Lavoro e pandemia, lavoro in presenza e lavoro da casa. Che cosa cambierà dopo l’emergenza? Smart working, riunioni su Zoom e Teams sono parole esplose insieme alla pandemia. Secondo Google Trends nei giorni di lockdown la ricerca di questi termini è schizzata alle stelle e fotografa la situazione in cui milioni di italiani si sono trovati a lavorare da un giorno all’altro. Con scuole, università e uffici chiusi per molti l’unica forma di lavoro possibile è stata quella online.

Ma lo smart working resterà o svanirà con l’emergenza? «Molto dipende da quello che faremo noi, finita la pandemia» dice la professoressa Sonia Bertolini, che insegna sociologia del lavoro all’Università di Torino. «Lo smart working o lavoro agile si è affermato in Italia in una situazione eccezionale, in un batter d’occhio e così il tempo di lavoro ha invaso il tempo privato, soprattutto a causa delle scuole chiuse e dei figli a casa, che hanno complicato la conciliazione tra famiglia e lavoro».

Il rischio di alienazione e di frustrazione c’è, perché «sentiamo la mancanza degli aspetti relazionali del lavoro, che è sempre stato fonte di interazione. È il primo modo in cui la maggior parte delle persone si costruisce le sue relazioni. Manca quello scambio informale di informazioni, che con cinque giorni su cinque in smart working è sostituito dalle collaborazioni attraverso le piattaforme online. Ogni volta che ci si deve confrontare su qualche argomento, si deve organizzare una videochiamata e questo è alienante».

Paradossalmente potrebbe essere il lockdown a indirizzare lo smart working nella giusta direzione. «È stato un importante esperimento sociale. Abbiamo capito che alcuni lavori si possono effettivamente svolgere in lavoro agile e siamo stati obbligati a socializzarci di più alle nuove tecnologie. Questi sono alcuni aspetti positivi che possiamo ricavare dalla pandemia».

La sfida sta nel ritorno alla normalità. Bisogna pensare a forme nuove di lavoro, che non possono più essere basate sul tempo, ma devono concentrarsi sugli obiettivi: «Per questo – continua Bertolini – serve una capacità di pianificazione e gestione del personale molto più puntuale». Cioè alternare giornate di lavoro a casa, dove si svolgono i compiti più ripetitivi, con giornate in azienda, nelle quali si possono concentrare le riunioni e i momenti di scambio. In questo modo la socialità, fondamentale per l’essere umano, non va persa.

Ma la dimensione del tempo resta essenziale. Il rischio delle nuove tecnologie è che anche fuori orario si pensi alle questioni in sospeso. «Se lavoro troppe ore al giorno non ho il cosiddetto tempo di recovering, in cui ci si rilassa e non si pensa al lavoro. Bisogna sviluppare un diritto alla disconnessione. Ci devono essere momenti, come la sera o il weekend, in cui io mi scollego. La normativa è importante affinché essere in smart working non voglia dire essere sempre a disposizione dell’impresa, altrimenti si cade in una specie di trappola, a volte autoimposta. Non serve rifiutare il cambiamento, ma regolarlo».

Le ricerche nel resto del mondo, dove lo smart working viene più utilizzato e non solo in tempo di Covid, come la Danimarca, Stati Uniti o Canada, dimostrano «che svolgere le proprie mansioni da casa può aumentare benessere e produttività, proprio perché aiuta a conciliare impegni lavorativi e familiari ed elimina i tempi morti, come andare tutti i giorni in ufficio con ore in mezzo al traffico. Tutto questo stress diminuirebbe e la vita sarebbe più serena».

E non è escluso che lo smart working possa portare benefici anche all’occupazione. I risparmi effettuati dalle imprese infatti potranno incentivare l’assunzione di nuovo personale. «È una forma che potrebbe portare ad investire in capitale umano. L’Italia deve ancora capire fino in fondo che la forza lavoro è una risorsa e non un costo da tagliare. Lo smart working può dare una mano».

JACOPO TOMATIS