Un vinile che gira sporcato dalla luce rossastra, il juke box smaltato sotto i riflessi dello stroboscopio. E’ il 1977 e Rai 1 trasmette il primo episodio di Happy Days. Giubbotti di pelle, brillantina, si balla il jive e si mangia nei diner: così l’Italia sognava l’America. La vedeva attraverso uno schermo ed entrava nel suo immaginario. Televisione, cinema, serie tv plasmano la percezione del reale. Dove l’esperienza diretta lascia vuoti ecco che le proiezioni entrano per poterli riempire, e lo fanno attraverso quelle narrazioni che ci raccontano l’inaccessibile. Così diamo senso al mondo, colmando le lacune di conoscenza con immagini e storie potenti che contaminano il nostro immaginario e lavorano sul modo in cui si pensa il diverso.
Ancor più oggi i media sono le lenti con cui si scruta il mondo, ecco perchè la notizia che il servizio di streaming Netflix sta aprendo una sede italiana potrebbe essere una mossa potenzialmente rivoluzionaria. L’idea è questa: finanziare massicciamente contenuti locali originali per distribuirli globalmente sulla sua piattaforma. Cosa significa? Cambiare forse il modo il cui il mondo percepisce se stesso.
La parola d’ordine è glocal
Andando più a fondo: si è di fronte ad una possibile glocalizzazione dell’intrattenimento. Netflix è un’azienda che opera a livello globale con l’obiettivo di adattare i suoi contenuti ad un pubblico localizzato. E’ un processo che non suona nuovo. American Idol, The X Factor, il freschissimo Lol, reggono proprio su questa logica di riarrangiamento. L’aveva già pensato il Mcdonald’s: il panino con l’Asiago Dop in Italia, quello con il Kiwi in Nuova Zelanda. Ma Netflix vuole far qualcosa di ancora diverso: distribuire i contenuti localizzati a livello internazionale. Un processo che potrebbe innescare un nuovo modo di raccontare terre straniere, lasciando proprio che lo sguardo autoctono guidi nella comprensione dei luoghi che non ci appartengono. L’allarme stereotipo è sempre in agguato, e questo sarà uno degli ostacoli che la piattaforma dovrà aggirare seguendo due direttrici: rispetto e indipendenza delle produzioni locali. Si pensi a Emily in Paris, la miniserie che racconta la vita di una giovane americana in una Parigi guardata con le lenti colorate di rosa. Baguette, champagne e nouvelle cousine, che non bastano a raccontare l’ecosistema della città, e infatti ai francesi non piace. Troppo romanzato, zeppo di cliché. Il compromesso sta nell’attirare il pubblico internazionale restituendo ritratti autentici che rispecchino il locale, incontrare quindi anche il suo consenso. Per farlo sarà necessario promuovere le idee dei territori in modo coerente e inclusivo. I media portano però in seno un peccato originale da scontare: sono pensati per l’intrattenimento, non per una fedele rappresentazione del reale. Il rischio dunque di ritratti imprecisi e incompleti è scritto nel loro Dna. Ma tanto è il pericolo di raccontare una versione posticcia e stereotipata di una cultura, quanto la possibilità di veicolare una narrazione autentica di quelle realtà con cui sarebbe difficile entrare in contatto diretto. Non solo, sarà un’opportunità per raggiungere attraverso un click, una scelta casuale, quei paesi estranei al contesto euroamericano. Quesi paesi dove ribollono le industrie dell’intrattenimento emergenti. Si pensi alle nazioni africane, a Nollywood. Un nuovo modo di raccontare storie locali con un appeal globale.
“Per noi una nuova opportunità”
Allontanandosi dal mondo delle possibilità ci si scontra con il reale. Netflix potrebbe essere tutto questo, ma cosa è, per ora, realmente? “Una grande opportunità” esordisce Mattia Puleo presidente CNA Cinema e Audiovisivo del Piemonte e produttore cinematografico di Cinefonie, “Sono un grande fruitore e personalmente mi piacerebbe lavorarci. Netflix sta rompendo meccanismi consolidati. Il mercato cinematografico italiano è stato spesso non meritocratico, la politica di Netflix si basa sulla densità di talento, scegliere i migliori, monopolizzare i professionisti di qualità” un processo competitivo che potrebbe rompere i meccanismi farraginosi che da più un ventennio rallentano il mercato italiano. “Si pensi a Rai e Mediaset da sempre vittime dello share che va a bloccare la sperimentazione, che allontana dal pubblico di nicchia, costringendo ad un immobilismo che non permette di trovare nuovi spettatori, tra questi i giovani. Netflix invece riesce ad intercettarli. Lo fa sdoganando i formati, i tempi, scegliendo argomenti inediti, per esempio il forte accento sulla sessualità e la parità di genere che caratterizza la piattaforma”. Netflix ha avuto in Italia una politica impermeabile, difficile a dirsi quindi se potrà creare un canale comunicativo con la produzione cinematografica indipendente. Quella che potrebbe restituire uno sguardo inedito, puntare sulla diversificazione, mantenendo uno sguardo autoctono.
“Sicuramente però Netflix può rappresentare un’opportunità per il locale in modo indiretto. Alza infatti lo standard qualitativo, dà una scossa all’immobilismo permettendo di intercettare storie coraggiose. E al locale guarda, si pensi al caso di Sanpa, frutto di una neonata produzione indipendente lombarda” continua Mattia Puleo. Netflix ha dei meriti, e forse una grande colpa: è americana. Un ostacolo per la glocalizzazione dell’intrattenimento prima citata, quella che porta in grembo l’opportunità di distribuire i ritratti autentici degli angoli di mondo. “Netflix ha sdoganato il concetto di prodotto locale a livello internazionale, al tempo stesso rimane un’azienda americana, e da sempre gli americani esportano la loro cultura in giro per il mondo. Ho visto una serie Chiami il mio agente, all’inizio era proprio francese, anche i volti, un po’ grotteschi. Durante le puntate entra un nuovo personaggio molto più americano. Verso la fine ho sentito che non era più fresca e genuina come nei primi episodi”. Può portare in giro ritratti locali, ma la contaminazione culturale rimane un problema reale, difficilmente sradicabile. Il rischio che la piattaforma si trasformi in un colonizzatore 2.0 è reale.
“L’apertura di una sede in Italia consolida una politica che era da tempo sul territorio, e potrebbe facilitare i contatti con l’azienda. Sicuramente Netflix non è il luogo ideale per la produzione indipendente, proprio perché finanzia progetti tenendosi i diritti. Le produzioni indipendenti invece giocano proprio sul mantenere la proprietà dell’opera. Può essere comunque una grande opportunità sul territorio.” conclude Mattia Puleo.
Se Netflix sia buona o cattiva è difficile a dirsi, una cosa è certa: sta spaccando i meccanismi creando un nuovo sistema di rischi e opportunità. Spunti di ripensamento, impulsi competitivi, compromessi fra locale e globale. Sarà però in grado di farci ripensare a ciò che pensavamo di sapere? Forse, magari non del tutto.