Giulio Giordano non vuole più essere ripreso né fotografato. Dice che non è la sua faccia che deve finire sui giornali, piuttosto la sua voce. Lui, che fu un partigiano, continua a rendere testimonianza di ciò che ha rappresentato la Resistenza nella sua vita. Classe 1925, vive a Torre Pellice, paesino nell’omonima valle a circa cinquanta chilometri a sud di Torino, che è sede dei maggiori organi amministrativi e religiosi della Chiesa Valdese italiana. Ha militato nella brigata Giustizia e Libertà, 5ª divisione alpina Sergio Toja, attiva nella Val Pellice, insieme a circa 140 compagni del posto.
Giulio aveva 18 anni quando si arruolò fra le fila partigiane. Giovane fra giovani, perché il movimento dei partigiani lo era, e ci tiene a ricordarlo:
Per Giulio diventare partigiano fu quasi naturale: “Mio padre era uno delle pochissime persone nel paese a non portare la quaquàra, il distintivo del partito fascista”. Il caso ha fatto il resto. Per il bando Graziani, che uscì nel novembre del ’43 per reclutare i giovani delle classi dal 1923 al 1925, avrebbe dovuto partire al fronte, ma non è stato considerato idoneo: “Ho fatto la visita medica e sono stato uno dei pochi scartati, considerato ‘rivedibile’. Significava che avrei dovuto tornare l’anno successivo per una seconda verifica e non andare al fronte”. Così – prosegue – “sono rimasto a Torre Pellice a fare la vita semiclandestina, iniziando come staffetta”.
Uno dei centri della vita partigiana del paese era il Caffè d’Italia: “Lì potevamo parlare tranquillamente; la famiglia proprietaria del locale era dalla nostra”. I militanti erano coordinati da Gustavo Malan, uno studente universitario di tre anni più grande di Giulio. Insieme alla sorella Frida e al fratello Roberto erano il perno della Resistenza in Val Pellice. Proprio Gustavo fondò nel 1952 a Torino l’Istituto italiano di studi europei.
Pochi metri dividono la caserma Ribet dalla tipografia L’Alpina, a Torre Pellice. Nata per stampare materiali per la chiesa valdese, nell’ottobre del 1943 è diventata anche organo clandestino dei gruppi partigiani, e non solo per la valle. “Ha stampato grossa parte del materiale che riguardava la formazione partigiana, almeno il 90% di quello del partito d’azione torinese, fra cui anche gli opuscoli di Giustizia e Libertà“. Inizialmente coinvolto da Gustavo Malan, Giulio era l’unico a lavorare insieme ai due proprietari; poi hanno iniziato a collaborare anche i dieci dipendenti della tipografia: “Lo hanno fatto pur sapendo i rischi che correvano”.
La posizione della tipografia, esattamente di fronte e a pochi passi dalla caserma Ribet, non destava alcun sospetto. Dal febbraio del ’44 nella struttura furono di stanza le camicie nere, e il marzo successivo la occuparono anche le SS. Giulio racconta che ci sono state undici perquisizioni, per fortuna tutte andate a vuoto. “Una volta entrò un gruppo di soldati tedeschi e avevamo appena finito di stampare; uno degli apprendisti è riuscito a buttare sulle copie un blocco di carta bianca per nasconderle, poi è riuscito a sfilare via il materiale appena stampato”. Nel lavoro clandestino due erano le maggiori difficoltà: fondere subito i caratteri da stampare per poi nascondere i piombini e distribuire il materiale nei paesi della valle.
E poi il giornale Il Pioniere. Creato da Gustavo Malan nel giugno del ’44, era un settimanale. Non era esclusivamente un giornale di banda, contenente dispacci organizzativi e informazioni militari per i gruppi partigiani, ma riportava anche notizie dall’Europa.
Nella sede de L’Alpina, ora ci sono la biblioteca “Resistenze: storia e memoria” e il museo della stampa clandestina. Giulio ha voluto che rimanessero tutte le attrezzature utilizzate per la produzione dei giornali.
Nell’estate del 1944 in Italia settentrionale iniziarono a formarsi delle zone libere, o repubbliche partigiane. Si trattava di enti che, appena liberati dall’occupazione nazifascista, costituivano le unità democratiche sperimentali della futura Repubblica. Fra gli organi amministrativi c’erano anche le giunte comunali, costituite dai gruppi partigiani con il coordinamento dei comitati di liberazione. Giulio aveva il ruolo di commissario di brigata: “Il mio compito era proprio quello di formare le giunte comunali, ma anche di curare i contatti con il Cln e raggruppare nuove squadre”.
Resistenza significò anche prendere posizione contro l’incoerenza che ha caratterizzato il popolo italiano, a ridosso della fine della dittatura fascista. Benito Mussolini, acclamato fino al 25 luglio 1943, data in cui con l’ordine del giorno Grandi fu sfiduciato dal gran consiglio del fascismo, fu poi rinnegato con tutte le forze.
Il 27 aprile, due giorni dopo la liberazione di Milano, i partigiani delle brigate di stanza nelle valli vicino Torino entrarono in città; la meta finale dopo mesi di preparazione e clandestinità. “Noi come 5ª divisione siamo entrati dalla parte sud, dal Lingotto, e ci siamo diretti verso Porta Nuova”. Le sue impressioni di quella giornata sembrano le diapositive di un film:
I soldati delle SS andarono via dalla città nella notte tra il 27 e il 28 aprile. Prima della dipartita ci furono combattimenti con i gruppi della Resistenza, in cui caddero anche molti civili: “Il cecchinaggio a Torino è stato brutto; sono morti tanti ragazzini, alcuni operatori della croce rossa. Ci furono diversi scontri, nel quartiere Santa Rita e alla stazione Dora”.
Giulio fa poi riferimento al rapporto ambiguo tra i gruppi della Resistenza e le forze angloamericane. Quando l’8 settembre del ’43 fu reso pubblico l’armistizio di Cassibile fra l’Italia e le potenze alleate, fu spontaneo solidarizzare con i “liberatori”: “Eravamo in guerra, c’erano sfollati ovunque e bombardamenti continui, mancava da mangiare; è stato naturale per noi ragazzi aiutare i soldati angloamericani”. Ma Giulio sottolinea che le truppe alleate consideravano i partigiani più come dei sabotatori che come un esercito da fiancheggiare.
Un altro lato spesso dimenticato della Resistenza è che molti partigiani, visto che erano giovanissimi, non hanno potuto partecipare al referendum istituzionale del 2 giugno del 1946. Il diritto di voto era infatti previsto per le persone al di sopra dei 21 anni. Una sorta di smacco, perché non hanno potuto esprimere alcuna volontà formale di appoggio a una Repubblica che hanno contribuito a far nascere.
Giulio porta l’ambiguità della lotta partigiana, capitolo luminoso e insieme oscuro. La passione civile e politica e, dall’altro lato l’uso della violenza, la clandestinità e il continuo timore di essere scoperti, come mezzi necessari per contribuire alla fine dell’occupazione nazifascista. E un orgoglio di resistere che ha il suo rovescio nel togliere a un’intera generazione la spensieratezza della giovane età, come lui stesso ammette.
La Resistenza oggi è un esercizio per non perdere la memoria. Questo Giulio lo sa bene e, finché potrà, userà la sua voce per evitarlo.
L’articolo è stato realizzato con la preziosa collaborazione di Luca Pons e Lorenzo Garbarino.