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La pace secondo Berdal: “Volontà comune, non basta un trattato”

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“Sono stati firmati più accordi di pace negli ultimi trent’anni che nel resto della storia umana. Eppure, il mondo continua a essere in guerra”. Si apre così la lectio di Mats Berdal per Biennale democrazia dal titolo “Il destino dei trattati di pace”. Norvegese, insegnante e direttore del Conflict, security and development research programme al King’s College di Londra e una lunga esperienza come consulente di organizzazioni intragovernative, Berdal ci tiene che la platea dell’auditorium del grattacielo di Intesa Sanpaolo abbia ben chiaro un concetto: “Nessun trattato può, da solo, portare a una pace duratura”.

Per il professore, sono tre le componenti di ogni trattato che ne influenzano l’efficacia: contesto, contenuto e implementazione. Di queste, il contesto in cui si sviluppa il conflitto è la più importante: ogni conflitto è diverso e influenzato dalla situazione pregressa, così come dalla cultura delle persone che lo combattono. “Non possiamo intendere i trattati come un puro esercizio meccanico”, spiega Berdal, che sottolinea come, di fronte all’elevato numero di accordi di pace presi negli ultimi decenni, pochissimi siano effettivamente serviti a risolvere i conflitti. Pensare di avere successo applicando sistematicamente soluzioni universali, come per esempio indire nuove elezioni, rimane un’utopia. Quale che sia il trauma lasciato dai combattimenti, non bastano una firma e una stretta di mano per cancellarlo.

Troppo spesso, infatti, i trattati si riducono ad essere una mera tregua tra le parti. Quante volte abbiamo assistito a situazioni in cui per qualche tempo morte e distruzione si fermano, solo per poi ricominciare con più forza di prima? Spesso questo è dovuto all’ambiguità dei trattati, che non riescono a stabilire con precisione le regole per la convivenza tra le parti sul lungo termine. Lasciando spazio all’interpretazione, e da lì al conflitto.

“Ogni situazione va studiata nella sua unicità per evitare che i trattati stessi possano contenere la scintilla che riaccende le violenze”. Secondo Berdal, è importante essere pronti ai compromessi, se necessario anche ignorando parte degli accordi, purché vengano mantenute tre linee guida principali: “È essenziale che ogni trattato miri a ridurre la violenza, a rafforzare le istituzioni e a creare tra esse e le persone un clima di fiducia”.

Tutto questo ha bisogno però di un presupposto essenziale: che tutte le parti coinvolte vogliano effettivamente muoversi per la pace. Una condizione che, a fronte del clima ostile che sempre di più caratterizza i rapporti internazionali, sembra di difficile realizzazione. “Negli ultimi mesi si sono intensificate situazioni che rendono tutto più complicato, come i dissidi nel Consiglio di sicurezza Onu o il crescere dei nazionalismi”, evidenzia Berdal, che ribadisce oggi più che mai la necessità di lavorare a stretto contatto con chi ha più interesse a costruire una pace duratura. E conclude: “Quando si tratta di pace non c’è mai un traguardo definitivo, un tempo massimo o un’univoca definizione di successo. È qualcosa che va costruito e mantenuto ogni giorno”.

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