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La morte al tempo del coronavirus: intervista alla tanatologa Marina Sozzi

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Muoiono in tanti, soli. A Bergamo non ci sono più posti al cimitero e i tempi per le cremazioni si allungano: è necessario il trasporto altrove delle bare sui camion dell’esercito. Le dieci pagine di necrologi sul giornale locale hanno fatto il giro del mondo. Essere preparati non si può e non si poteva, spiega la tanatologa torinese Marina Sozzi, ma in qualche modo è importante pensare al dopo, alla memoria di quello che sta succedendo e dei defunti di questo periodo.

 

Di colpo l’intera popolazione italiana e non solo è alle prese con dati sulla letalità di un virus e con un susseguirsi di notizie di morte: eravamo pronti a questo?
“Certamente no ma credo che nessuna civiltà sia mai stata preparata di fronte a una epidemia di questa portata. Per di più, la nostra cultura ha maggiori difficoltà nel suo rapporto con la morte, dopo decenni di negazione e fuga dalla consapevolezza della mortalità. Eppure, ho la sensazione che stiano emergendo alcuni tratti propri dell’uomo, il bisogno di stringersi gli uni agli altri nella sventura e nella paura, la commemorazione dei defunti nei necrologi, il rinsaldarsi delle relazioni, la solidarietà, perfino il patriottismo, in un paese tradizionalmente esterofilo come l’Italia. Poi, certo, ci sono anche coloro che continuano a negare, che sottovalutano il pericolo, che dicono che “tanto muoiono solo gli anziani”, che non riescono a rispettare le regole. Siamo probabilmente di fronte a un evento che, per la sua enormità e per gli effetti che avrà su tutti i piani, ci porterà a rivedere il nostro rapporto con la morte e con i morti.”

Come ha sottolineato nell’articolo che ha scritto sul blog Si può dire morte, c’è anche un problema con il modo in cui si muore di coronavirus: soli. Non si celebrano neanche i funerali. E’ possibile fare pace con una situazione del genere?
“No, non si può e non si deve fare pace con una realtà del genere. Se ora siamo costretti ad accettarla, perché la priorità è arrestare il contagio, dobbiamo ricordarci ciò che è successo quando tutto questo finirà, per comprendere l’importanza di quello che avevamo sottovalutato, dichiarandoci spesso antiritualisti: l’accompagnamento di qualità alla fine della vita, il culto dei morti, la memoria.”

Sozzi
Marina Sozzi

Come può contribuire l’esperienza maturata nel mondo delle cure palliative?
“In questo momento, in Italia, le istituzioni di cure palliative sono senza parole. Nulla è più contrario alla filosofia delle cure palliative di questa morte solitaria, senza familiari, senza accompagnamento, magari intubata. Sappiamo che ci sono molte persone che stanno morendo, e, come ha scritto Simone Veronese, medico palliativista, “sappiamo che moriranno in isolamento, non sappiamo se e come vengano trattati i sintomi (mancanza di fiato, dolore, agitazione…)”. Non sappiamo se vengano valutati ed affrontati i loro bisogni spirituali, se si parli loro francamente di quello che potrà accadere. Non sappiamo se e come vengano supportati e accompagnati i loro cari a distanza. Non per incompetenza di chi li cura ma perché mancano risorse dedicate.
Tuttavia, l’Organizzazione mondiale della sanità ha prodotto nel 2018 una guida sull’integrazione delle cure palliative e controllo dei sintomi nella risposta a crisi ed emergenze umanitarie: un documento che oggi tutti i medici in prima fila nell’emergenza dovrebbero leggere, e che dovrebbe fungere da guida nell’organizzazione straordinaria del sistema sanitario.”

Il virus colpisce e uccide in particolare i più vecchi, al punto che si è diffusa una narrazione del tipo “in fondo muoiono solo anziani e malati”, una sorta di lato positivo. Come pensa che possa vivere la situazione chi è anziano o malato?
“In realtà sono per fortuna pochi sconsiderati a fare discorsi del genere. La maggior parte delle persone ha compreso che occorre proteggere anziani e malati, arrestando, appunto, il contagio.
Certamente, se chi è anziano e malato già si sente, inevitabilmente, fragile, in questo frangente il senso di vulnerabilità diventa estremo, e ciò che pesa di più è sapere che non si potranno avere i propri cari vicini. Lo dico sia come figlia di due genitori novantaduenni, per i quali sono molto inquieta, sia come persona che, a causa della malattia oncologica, è sempre leggermente immunodepressa.

Come vivono invece le nuove generazioni il rapporto con la morte?
“Davide Sisto, che si occupa di come la morte, il morire, il lutto e la memoria vengano gestite nei social network e sul web, afferma che negli Stati Uniti i giovani affrontano il tema della morte con maggior serenità. Quest’esperienza terribile della pandemia forse approfondirà il cambiamento in corso. Molti ragazzi si confrontano per la prima volta con il pericolo della vita, o quantomeno della possibile perdita dei loro cari. Penso che questa consapevolezza li porterà a riflettere di più sulla mortalità, sulla fragilità, e di conseguenza sulla solidarietà e sull’attenzione per il benessere degli altri. Me lo auguro, almeno.

In generale possiamo imparare qualcosa da quello che sta succedendo?
“La storia in genere non ci insegna molto. Ripetiamo spesso gli stessi errori, abbiamo la memoria corta, e passato il pericolo riprendiamo le vecchie abitudini. Questa crisi, però, ha tutta l’aria di essere un evento epocale, capace di cambiare il volto del nostro mondo, da ogni punto di vista, economico, sociale, culturale. Perciò trovo davvero difficile fare previsioni in questo momento.”

ADRIANA RICCOMAGNO