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La Magna Charta conquista Vercelli

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Lo storico Alessandro Barbero: “Testimonianza dell’epoca in cui è nata la nostra modernità”

La copia della Magna Charta che è in mostra a Vercelli.

Vercelli, come Torino, da città industriale in questi anni si è reinventata città culturale. Dopo la crisi del settore tessile ha riscoperto la sua tradizione intellettuale, artistica e universitaria, le cui radici affondano nel Medioevo. Già dal 2008 al 2013 aveva ospitato le collezioni Guggenheim sotto la volta dell’ex chiesa di San Marco, oggi chiamata Arca. Dal 23 marzo al 9 giugno, l’Arca custodirà, per la prima volta in Italia, la Magna Charta, il documento del 1215 con cui re Giovanni Senza Terra concesse ai baroni inglesi alcuni diritti che ancora oggi stanno alla base delle democrazie occidentali. L’occasione è data dagli 800 anni della fondazione della Basilica di Sant’Andrea, che con le sue quattro torri rosse e bianche domina ancora oggi il panorama cittadino e davanti ai cui portali è stato arso vivo quel fra’ Dolcino, ricordato da Umberto Eco ne Il Nome della Rosa.

Per capire l’importanza dell’evento abbiamo intervistato Alessandro Barbero, medievista, professore all’Università del Piemonte Orientale, scrittore e divulgatore tv.

Perché Vercelli ospiterà una delle quattro copie rimaste della Magna Charta?

«Perché ad una delle redazioni, quella del 1217, era presente come legato papale il vercellese che ha fondato la Basilica di Sant’Andrea, il cardinale Guala Bicchieri, a mediare tra il re e i baroni ribelli. Dopo la morte di re Giovanni, Enrico III, ancora bambino, rinnova la concessione, che viene siglata da Bicchieri».

Chi era Guala Bicchieri?

«Era un cardinale, uno degli uomini più influenti d’Europa. All’epoca erano in pochi ad avere questa carica e spesso erano inviati del papa nelle corti. All’inizio del XIII secolo i pontefici erano all’apice del loro potere e i governi europei erano costretti ad accettarne le ingerenze».

La Magna Charta è ancora importante adesso?

«Si, per due motivi. Le sue influenze dirette si sentono ancora oggi in due principi: il diritto di essere giudicati da propri pari, il motivo per cui i processi vedono la presenza delle giurie popolari, e il diritto a non essere arrestati senza un’ordinanza della magistratura, l’habeas corpus, uno dei principi fondamentali delle democrazie occidentali. Il documento poi rappresenta la lotta tra il tentativo del re di costruire un potere assoluto e quello dei baroni di costringere quel potere a rispondere a delle assemblee che rappresentino il paese. Noi viviamo in un mondo in cui questo secondo principio, grazie anche alla Magna Charta, ha vinto e nessun governo si può considerare democratico se non risponde ad un parlamento».

Quindi la Magna Charta dimostra che il Medioevo non era così buio come spesso si dice?

«Ormai chi lo insegna non lo pensa più. Sono i giornalisti, nella loro ignoranza, e i politici, nella loro ignoranza ancora più abissale, a strillare ‘Siamo di nuovo al medioevo’ e la forza enorme dei luoghi comuni che la gente ripete. Senza i primi, il solo luogo comune non basterebbe. La gente va in estasi davanti alla Basilica di Sant’Andrea o a Notre Dame e quindi sa bene che il medioevo era altro. È l’epoca nella quale è nata la nostra modernità, con molti conflitti importanti ancora oggi, come quello fra autoritarismo e controllo parlamentare».

Bisognerebbe prendere più ispirazione dal Medioevo?

«Conoscere il passato non garantisce di non fare sciocchezze, ma una società e una classe politica che conoscessero meglio il passato sarebbero utili per vivere meglio nel presente ed evitare i disastri che il futuro ci riserva. Il fatto che smettano di ripetere i luoghi comuni sul medioevo è una cosa che interessa i medievisti, ma da giornalisti e politici ci sono altre cose che preferirei sentire. Sarei disposto a far continuare le leggende sul Medioevo in cambio di qualcosa di utile da parte loro».

JACOPO TOMATIS

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