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La Liberazione 75 anni dopo. I ricordi del partigiano “Vetta”

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[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#ffffff” align=”center” size=”1″ quote=”Johnny pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno.” cite=”Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny” parallax=”off” direction=”left” revealfx=”off”]

Un suono di campane da tutti i paesi vicini. Così arrivò la notizia della Liberazione, il 25 aprile di 75 anni fa, nel ricordo del partigiano Lucio Tomalino, nome di battaglia “Vetta”. Una gioia immensa per lui e per i suoi compagni di brigata della II Divisione Langhe, reduci da uno scontro, la sera prima, con una formazione di militari della Repubblica di Salò in ritirata da Asti verso Alessandria. “Dopo tanto combattere, sentivamo il bisogno di pace, comprensione e amore” racconta Tomalino. “Ricordo le macerie fumanti delle città, ma anche quanto la gente si sia data da fare per la ricostruzione, con coraggio e volontà. Lo spirito di allora è stato fondamentale per ritrovare l’unità, ma quel clima purtroppo è durato pochissimo”.

L’ingresso nella Resistenza
All’epoca Lucio era un diciannovenne costretto dalla vita a prendere decisioni cruciali fin da giovanissimo. La sua famiglia dalla Liguria era sfollata sulle colline tra le province di Asti e Alessandria. Qui nel giugno del 1944 si unisce alla brigata “Rocca d’Arazzo” delle formazioni partigiane autonome, formalmente slegate da ogni partito del Comitato di Liberazione Nazionale. “Facevo parte dell’ultima classe chiamata alla leva. Avevo tre strade davanti a me: diventare repubblichino, renitente o partigiano. La decisione è stata sicura e definitiva: Resistenza”.
Senza ricoprire posizioni di comando, Tomalino segue molto la parte amministrativa, opera a stretto contatto con le figure di maggiore responsabilità per rapportarsi con la popolazione e con gli alleati. Il suo comandante di brigata è Ameglio Novello detto “Marini”, mentre a guidare la Divisione è Piero Balbo “Poli”, idealizzato nella figura del Comandante Nord dallo scrittore e partigiano Beppe Fenoglio.
Con l’aiuto degli ufficiali alleati paracadutati oltre le linee nemiche, la II Divisione Langhe costruisce l’aeroporto di Vesime, una rarissima zona di atterraggio in area occupata dai nazifascisti. “I nostri comandanti erano persone molto equilibrate” ricorda Tomalino. “Avevano senso di responsabilità, pensavano sempre alla popolazione. Un’azione malfatta poteva causare rastrellamenti e stragi di civili, loro però erano molto assennati e attenti. Hanno saputo creare un’unità di azione con le altre brigate e questo ha fatto sì che nella nostra zona non siano mai avvenute grosse rappresaglie”.

Rastrellamenti e guerriglia
I momenti di grave pericolo non sono mancati. Il 2 dicembre 1944 uno dei maggiori rastrellamenti da parte dei nazifascisti crea uno sbandamento delle formazioni partigiane. Se la ritirata avviene senza subire gravi perdite è anche merito di un’azione che Tomalino ricorda come la più importante a cui abbia partecipato: “In 170 partigiani abbiamo tenuto testa per quattordici ore a duemila tra tedeschi e fascisti. Da una collina sopra il fiume Tanaro, tra Castello d’Annone e Rocca d’Arazzo, abbiamo evitato l’accerchiamento di tutte le formazioni partigiane con una mitragliatrice pesante caduta da un aereo americano”.
Durante tutta la Resistenza, Tomalino ricorda di essere venuto a contatto con il nemico in molte azioni, ma di aver avuto paura soltanto durante la liberazione di Torino. Giorni di grande incertezza, proprio nel momento in cui si avvicina la conclusione del conflitto: “Sentivi degli spari alle tue spalle, non sapevi dove fosse il nemico, non lo vedevi. Questo ti dà un senso di sgomento e di insicurezza. Credo che la guerriglia di questo tipo sia la cosa peggiore che ci possa essere”.

Le difficoltà della ricostruzione
La gioia e il bisogno di pace che provano i partigiani all’indomani della liberazione hanno breve durata. Gli entusiasmi lasciano presto il posto alle divisioni. La via scelta dal ministro Palmiro Togliatti, guida del Partito Comunista Italiano, di pacificare attraverso la cosiddetta “amnistia Togliatti” rischia di provocare un terremoto tra i reduci della Resistenza: “Noi non volevamo che i fascisti fossero ripristinati nei posti chiave. I partigiani chiedevano di essere tenuti in considerazione, di ottenere posti di lavoro. Le forze dominanti precedenti, invece, riprendevano il potere” ricorda Tomalino. Nell’agosto del 1946 si arriva sull’orlo di un’insurrezione partigiana a Santa Libera, località del cuneese. Non si manifesta in forma violenta per la mediazione del vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni, che faceva le veci di Alcide De Gasperi, impegnato a Parigi nelle discussioni per i Trattati. “Per fortuna c’è stato un accordo, si è contenuta la protesta e si è ottenuto qualcosa per i partigiani. Ma le aspettative dello spirito partigiano originario credo che siano state molto deluse”.

Il 25 aprile oggi
Oggi Lucio Tomalino ha 94 anni, vive a Chiavari, nella città metropolitana di Genova, ed è presidente onorario dell’Israt, l’Istituto per la Resistenza di Asti. L’anniversario della liberazione per lui resta un momento fondamentale, il segno della rinascita dell’Italia dal Ventennio fascista: “Il 25 aprile per me rappresenta la conquista della dignità di un popolo, la libertà e la democrazia. Conquiste che hanno permesso la nascita della nostra Costituzione basandosi sulla Resistenza” conclude. “È la ripresa dell’onore del popolo italiano, la sua ricostruzione morale, materiale, politica e culturale da un’ideologia guerrafondaia e portata alla violenza”.

Ascolta “Interviste” su Spreaker.

LUCA PARENA