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I sopravvissuti. Dentro la goliardia torinese

di Massimiliano Mattiello e David Trangoni

Questo è il racconto di due “filistei” (così viene chiamato chi non ne fa parte) che hanno avvicinato un gruppo di goliardi in uno dei locali vicino a Palazzo nuovo, per fare quattro chiacchiere e farsi spiegare chi sono e in cosa si riconoscono.

C’è chi la definisce una “massoneria per poveri”. Per altri «la goliardia è come il matrimonio: l’arte di risolvere in due problemi che da solo non avresti mai avuto», come dice Andrea, sardo, al secondo anno di università, nell’ordine goliardico dei Templari ormai da un anno e mezzo. La goliardia torinese si ritrova in bar, pub e altri locali per discutere, dibattere e giocare secondo regole antiche, che seguono i canoni della retorica e della dialettica.

Questo è quello che rimane di una tradizione millenaria, cominciata nel basso medioevo per iniziativa degli studenti delle prime università, che cercavano un modo per coalizzarsi e portare le loro istanze all’attenzione dei maestri. La goliardia per come la conosciamo ha avuto il suo momento migliore alla fine del XIX secolo, culminando con i grandi festeggiamenti per l’ottavo centenario dell’università di Bologna. Nel 1946 alla Ca’ Foscari di Venezia, dove la tradizione ha mantenuto salde radici, venne poi codificato il regolamento goliardico nel “Morandini”, ancora oggi usato dalle confraternite come base per le attività e i giochi dialettici.

Con il ’68 e la politicizzazione delle università, il movimento si sgonfiò: gli studenti in generale preferivano ritrovarsi tra loro in altri modi, per evitare di venire confinati negli schemi partitici e politici dell’epoca. Perché alla base della goliardia c’è il superamento di quelle che loro chiamano “sovrastrutture”, su tutte lo stato e la religione. Dopo un decennio di silenzio i goliardi tornarono alla luce alla fine degli anni ’70, in un contesto decisamente mutato.

Quattro amici al bar?

Alexander, membro dell’ordine degli Iovsj sembra il più esperto in materia: «La goliardia è un modo per stare insieme, per supportarsi a vicenda nei difficili anni dell’università, per darsi una mano e alleggerire lo stress, consapevoli di portare avanti una grande tradizione». Se gli fai notare che non sembra molto diverso da un buon gruppo di amici, risponde che ci vuole meno tempo per creare quel genere di rapporto.

I goliardi di oggi sono ragazzi normali, forse un po’ più profondi dei coetanei, forse un po’ meno. Quello che sembra è che questi ragazzi e queste ragazze vivano la goliardia come un modo diverso di aggregarsi e passare la serata. In più c’è l’elemento della gerarchia e della storia, le feluche e la lingua sciolta nel gioco di parole. In Italia ci sono gruppi goliardici praticamente ovunque e la geografia di gemellaggi e rivalità è articolata e complessa.

Non sempre gruppi affini condividono le stesse amicizie, ma i passaggi e i contatti permettono di trovare un appoggio praticamente ovunque. Ginevra, genovese, è al secondo anno e fino a due mesi fa non sapeva nemmeno dell’esistenza della goliardia. Poi dei suoi amici e concittadini l’hanno messa in contatto con i Vampiri torinesi e il rito d’iniziazione è stato il passo successivo «Quando ho iniziato qua a Torino avevo pochi contatti e la mia rete di amicizie era piuttosto ristretta: entrando nella goliardia le cose sono cambiate, ora conosco un mondo di gente ed essere fuori sede è meno pesante». Per chi viene da fuori e non viaggia, spesso le giornate trascorrono vuote. Far parte di un gruppo che ti fa sentire subito a tuo agio e ti supporta non dev’essere male.

 

A processo, a processo!

Si entra in un ordine appunto attraverso un rito d’iniziazione, chiamato “processo”, che «ti fa oltrepassare i tuoi limiti, ti porta oltre i pregiudizi e gli imbarazzi: ti mette a nudo in ogni senso». In effetti il racconto di questi “rituali” vira un po’ nella direzione del baccanale: non si va per il sottile con l’alcool e spesso le penitenze a cui si è sottoposti sfiorano l’umiliazione. «Però oggi, almeno a Torino, nella goliardia nessuno è costretto a fare quello che non vuole. Non siamo una setta. Durante tutta l’esperienza nell’ordine, dal processo d’iniziazione in poi, ci si può tirare indietro in ogni momento senza conseguenze sulla vita privata» dice Giorgia, che ha lasciato i Vampiri da poco proprio per “problemi personali” che non le permettevano di vivere serenamente all’interno del gruppo.

 

I classici copricapo dei goliardi (foto da Wikipedia)

La gerarchia è uno dei punti delicati della questione. Ancora Alexander ci racconta che: «una volta sicuramente erano presenti comportamenti di nonnismo e in ogni caso chi è più basso in grado deve rispondere e obbedire a chi sta più in alto, ma non bisogna fare della gerarchia un problema: è uno strumento per far rispettare le regole e per rispettare la natura della goliardia, che si trasmette da una generazione di studenti all’altra. Tutti sono stati “bustine della res publica” (il gradino più basso della scala, dove si sta quando non si è nemmeno matricole e si frequentano ancora le superiori) e hanno fatto gavetta, per poi, nel caso, salire di grado. Tuttavia mai nessuno si è sognato di costringere qualcun altro a umiliarsi e a farsi del male: sarebbe un errore per tutto l’ordine».

 

Prima del ’68 e dell’arrivo di cose “più serie”, la gerarchia goliardica era molto più pressante e meno improntata allo stare bene insieme: la dimensione del gioco non era così presente. Il codice si rispetta ancora oggi, ma serve per dare delle regole sociali laddove le convenzioni sociali del quotidiano non valgono più. A Torino i goliardi sono pochi (una settantina), anche se i processi iniziatori stanno crescendo. Giorgia dice che «in fondo nella goliardia non si entra veramente, ma piuttosto il rito d’iniziazione serve per confermare che ci si vuole rimanere: perché lo spirito goliardico è in ognuno e ognuna di noi, bisogna solo tirarlo fuori».

 

«I miei non lo sanno»

I rapporti con l’Università sono freddini. Santità, il sommo esponente dell’Ordine a Torino, parla con il magnifico rettore, ma le iniziative strutturate mancano. «Alle origini il rettore era il goliarda che, eletto dai colleghi studenti, trattava con il maestro delle questioni riguardanti l’insegnamento e l’organizzazione – dice Andrea, che ha studiato un po’ la storia della goliardia – In pratica guidava la corporazione degli studenti per salvaguardarne gli interessi», mentre oggi la situazione è un po’ diversa, come è facile immaginare.

In molti contesti universitari i goliardi vengono visti dal personale e dal corpo studentesco più come un gruppo di casinisti, che genera simpatia o disagio a seconda delle situazioni e dei decibel prodotti. Quelli visti in giro per la città non sembrano personaggi troppo strani e deplorevoli, però la goliardia così com’è non sembra attirare più di tanto. Alexander, il goliarda più “anziano” al tavolo, ci spiega che «in un ateneo di una grande città i numeri possono sembrare minimi se rapportati alla popolazione universitaria. I gruppi goliardici di piccole realtà si fanno vedere e conoscere molto di più rispetto a noi, anche se la situazione, confrontata a quella di pochi anni fa, è decisamente migliorata».

E cosa raccontano a casa i goliardi, a chi magari li mantiene e pretende applicazione e serietà? A volte la verità e spesso viene accettata. In altri casi «non sanno proprio niente e per certi versi è meglio così!».

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