Raccontare gli scontri, le battaglie e i conflitti sotto la lente d’ingrandimento dell’informazione. È questa la sfida quotidiana del corrispondente di guerra, un ruolo fondamentale nel mondo del giornalismo e, tra i tanti, probabilmente uno dei più iconici. Quali sono le difficoltà di narrare una guerra? Quanto è difficile districarsi tra le parti che si scontrano, tra la paura e l’omertà da un lato e l’imposizione di un freno censorio dall’altro?
Abbiamo affrontato questi e tanti altri punti nell’intervista a Sebastiano Scavo, per tutti semplicemente Nello. Reporter internazionale, ha al suo attivo decine di inchieste nell’ambito della criminalità organizzata e il terrorismo, con un focus particolare sulle rotte migratorie nel Mediterraneo. Dallo scoppio dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina, Scavo è corrispondente da Kiev ma – come racconta – in realtà ha avuto l’occasione di spostarsi moltissimo, potendo così raccontare il conflitto da varie zone del Paese. Ci torniamo tra poco.
Russia, la prigione delle libertà
Il 24 febbraio 2022 segna un punto di non ritorno nella storia del mondo, riportando la guerra alle soglie dell’Europa unita. Per l’opinione pubblica che si nutre di informazione così come per chi quella stessa informazione si trova ad alimentarla ogni giorno, è di vitale importanza capire l’impatto del conflitto sul modo di raccontare la guerra. A meno di un mese dallo scoppio del conflitto, la Russia sferza un colpo decisivo alla libertà d’informazione: è il 3 marzo quando la Duma approva un emendamento per contrastare le “fake news” su quella che il governo di Putin tutt’oggi continua a definire “operazione speciale”. Il riferimento, com’è noto, è alla guerra in Ucraina che, secondo le stime di Reporters Sans Frontières, soltanto nei primi sei mesi ha provocato la morte di otto giornalisti.
La stretta sulle libertà fondamentali è nota anche fuori dai confini della Federazione: “Non ho mai messo piede in Russia, ma sono tante le fonti affidabili che testimoniano come esiste una notevole quota di dissenso che viene silenziata e repressa in maniera anche molto violenta”. Le parole di Nello Scavo non lasciano spazio a interpretazioni: “la Russia così come ci viene descritta è una grande prigione a cielo aperto per la libertà”. La messa al bando di Novaya Gazeta, il giornale della compianta Anna Politkovskaja e del Premio Nobel Dimitri Muratov, spegne inesorabilmente ogni residuo barlume di libera informazione, “ammesso che sia mai esistita negli ultimi anni” tra reti televisive, stazioni radiofoniche e social network sotto il controllo statale.
“È un problema gigantesco. Il 70% dei russi non ha il passaporto e quindi non ha mai viaggiato. L’80% della popolazione che vive al di fuori delle grandi città non ha accesso a internet e usa telefoni con tecnologia GSM”: tutto ciò, unito alle dimensioni gigantesche di un Paese che conta ben 11 fusi orari, caratterizza un “mondo arcaico che conosciamo attraverso le immagini delle città come Mosca e San Pietroburgo o poli produttivi come Sochi, cresciuti in occasione delle Olimpiadi 2018. Il resto del Paese, però, è una massa di persone senza libertà di informazione né di espressione”.
In un quadro del genere, chi si trova quotidianamente a dover raccontare la realtà e, ancor di più, una realtà di guerra, affronta il grande problema della raccolta delle informazioni. Scavo sottolinea come “la maggior parte di ciò che fuoriesce dal contesto ucraino e finisce in Russia viene bollato come prodotto della propaganda di Volodomyr Zelensky”. Il timore di essere davvero vittime della propaganda nemica va di pari passo con la paura di essere intercettati dai controlli interni, che dunque finiscono inevitabilmente per alimentare la spirale dell’omertà: “se parli con un russo non sai cosa gli passa per la testa”. Un po’ laconico forse, ma decisamente potente.
Giornalismo di guerra, la “prima bozza della Storia”
Stando così le cose, quali sono le principali ripercussioni sulla narrazione giornalistica? In maniera forse ancor più marcata che in ogni altro ambito del lavoro del corrispondente, per raccontare la guerra un ruolo determinante lo ricopre l’esperienza. Il ricordo va ai grandi reporter del passato come Demetrio Volcic e alle tantissime cronache che resistevano ai controlli stringenti dell’epoca sovietica, entrando di diritto nella “storia del giornalismo”. Si trattava di professionisti rodati e affidabili, profondi conoscitori del territorio, soggetti anch’essi al vaglio dei pezzi prima della messa in onda eppure capaci ugualmente di tirar fuori le notizie, evitando la censura.
Il conflitto che da oltre un anno imperversa tra Russia e Ucraina rispetta tutti i canoni della guerra formale, dove c’è un Paese invasore e dei confini che vengono valicati in quanto messi in discussione – quali che siano i motivi, è essenzialmente ciò che accade. Scavo parla di “guerra matrioska” in cui, oltre agli interessi ufficiali di Putin e Zelensky, trovano sfogo numerosissime istanze di gruppi politici, etnici o religiosi. “Ho visto estremisti di destra e di sinistra combattere da entrambe le parti”. Ci sono poi tra i ceceni quelli che combattono al fianco dei russi e quelli che invece li osteggiano per vendicare l’invasione subita anni fa. Tra i georgiani, chi vive nei territori conquistati dalla Russia combatte contro l’Ucraina, mentre altri, al contrario, intravedono nel conflitto lo spiraglio tanto atteso per rifarsi dei torti subiti proprio dall’esercito di Putin. Ci sono poi gruppi islamici vicini agli ambienti dell’Isis che combattono contro la Russia, presi dall’avversione nei confronti di Putin per aver attaccato il Califfato servendosi di al-Qaeda.
Come sottolinea Nello Scavo, a combattere “in campo non ci sono soltanto due eserciti, ma ciò che si trova a scontrarsi sono gli strascichi delle guerre di Putin e i fallimenti dell’Occidente: è veramente un rompicapo”. Alla complessità della guerra si aggiunge il vero problema per la narrazione dei fatti, ossia la libertà che i reporter hanno di spostarsi da una parte all’altra di un territorio. Tenendo presente la difficoltà (quando non la reticenza) delle persone di raccontare la propria esperienza, la questione della libertà degli spostamenti è ciò che fa la differenza nel lavoro quotidiano di un giornalista. In Ucraina questa libertà esiste anche se – naturalmente – viene controbilanciata da precise “regole di ingaggio”, mentre in Russia è praticamente impossibile muoversi liberamente anche per via di una “rete spionistica che controlla i movimenti dei giornalisti”. Un esempio dal Donbass: “se la Russia avesse voluto rendere più trasparente la narrazione del suo fronte nelle regioni contese, perché non ha permesso alle organizzazioni umanitarie di accedere? Le domande presentate da Onu e Unicef non hanno mai ricevuto risposta da Mosca, ad eccezione di un timido e limitato accesso alle carceri, dove ai prigionieri ucraini è stato concesso di poter parlare con la Croce Rossa internazionale ma solo in presenza dei militari russi”.
Scavo non crede al rischio di una narrazione unidirezionale del conflitto, piuttosto crede che per il giornalismo (in particolare quello televisivo) sia giunto il momento di “uscire dalla sindrome da par condicio imposta dalla politica e tornare a fare delle scelte”, smarcandosi dalla logica esclusiva tra una determinata posizione e l’altra: “personalmente credo che Putin sia a capo di un sistema criminale, mentre se Zelensky è uno statista ce lo dirà la storia. Stare con il popolo ucraino non significa stare col presidente Zelensky”. Qual è allora il campo d’azione per un giornalista di guerra? Il vero obiettivo di un reporter è quella di scrivere “la verità dell’istante, la prima bozza della Storia” (per dirla con Bernardo Valli, ex corrispondente di Repubblica): in quanto tale, al racconto giornalistico può e anzi si deve lasciare un margine d’errore, in quanto “aspettarsi una verità immutabile non è altro che una chimera”.
Verso una giustizia internazionale
Nelle parole di Nello Scavo trova spazio anche il ricordo dei suoi errori di valutazione all’inizio del conflitto, quando scrisse che Kiev sarebbe caduta di lì a poco mentre oggi appare chiaro come, nonostante “tanta stanchezza per i combattimenti”, il popolo ucraino riporrà le armi “solo quando i russi saranno andati via”. Sempre parlando degli ucraini, Scavo sottolinea come il granaio d’Europa sia una “democrazia giovane, con un livello di corruzione spaventoso ma reduce da settant’anni di stalinismo”, mentre sul fronte dell’informazione “pensare che un ragazzo ucraino che parla fluentemente inglese si faccia influenzare solo dai giornali nazionali (senza vedere la BBC o la CNN) non tiene conto della reale capacità della popolazione di comprendere fatti e circostanze”.
Un ultimo, determinante tema riguarda gli strascichi di un conflitto che affonda le sue radici al tempo dell’invasione della Crimea nel 2014 e che, nata più di un anno fa come guerra di libertà, è diventato oggi uno scontro attraverso cui ottenere giustizia per i torti subiti, ma “quando la guerra assume i tratti della vendetta rischia di perpetuarsi molto a lungo perché non si riassorbe solo con la riconquista del territorio”. Quasi sempre, in questi casi, ciò di cui veramente si sente il bisogno è una giustizia internazionale ma chi, in concreto, ha la forza di occuparsene? Potrebbe essere un’occasione per l’Unione europea di affermare ulteriormente la propria leadership nell’ambito dei diritti umani? “Piuttosto – dice Scavo – potrebbe essere il giusto campo d’azione per la Corte penale internazionale dell’Aia, ma Russia e Ucraina non ne fanno parte (sebbene Kiev con tre lettere è entrata de facto a farne parte)”.
La questione è intricatissima e ai limiti del paradossale: la Corte ha avviato processo ma potrebbe non riuscire a intervenire dal momento che la Russia non può essere giudicata senza un mandato del Consiglio di sicurezza Onu, che risulta però imbrigliato nel sistema del diritto di veto (determinante data la presenza della Cina e, appunto, della Russia). Come suggerisce Scavo, “l’unica soluzione sarebbe l’istituzione di un tribunale speciale come avvenuto in Ruanda, Cambogia o Jugoslavia, anche se il punto poi sarebbe la cattura dei responsabili”. Un’idea non così azzardata e che, anzi, trova una sponda proprio nei fatti degli ultimi giorni, come testimonia l’incontro avvenuto lo scorso 4 marzo a Leopoli tra il procuratore generale ucraino Andriy Kostin e il presidente lettone Egils Levits, per confrontarsi sulla creazione di un tribunale internazionale per giudicare i crimini russi ai danni dell’Ucraina.