Il 27 febbraio è venuto in redazione il direttore de La Stampa Maurizio Molinari. L’intervista corale di Futura si è concentrata sulle prospettive del giornalismo, la situazione politica attuale e l’esperienza da corrispondente.
Com’è cambiato il suo lavoro quotidiano nel passaggio da corrispondente estero a direttore?
In una comunità intellettuale, come lo è un giornale, contano tutte le idee e allora, per evitare che si degeneri in anarchia, serve una catena di comando molto rigida: tutti devono avere l’opportunità di interagire, ma ci deve essere una scala di responsabilità dall’alto verso il basso e viceversa. Il corrispondente locale o estero deve mettere in condizione il giornale di pubblicare la sua storia. Il problema del direttore è esattamente contrario: riceve una mole di sollecitazioni da collaboratori, redattori e capiservizio e il suo compito è quello di prendere decisioni.
Dov’è il limite tra giornalismo e pornografia del dolore?
È sicuramente una delle scelte più difficili. Ci sono quelli che dicono che una decapitazione è troppo truculenta e non si può far vedere mentre altri affermano che se non si mostrano le decapitazioni dell’Isis il pubblico non ha idea della brutalità di questa organizzazione. Entrambe le posizioni hanno fondamento. Bisogna descrivere i fatti senza superare il limite della decenza. Il confine è il rispetto per l’essere umano. Utilizzando immagini forti le persone si trovano però di fronte all’obbligo di essere consapevoli di ciò che stanno percependo.
Com’è stata dal punto di vista umano la sua esperienza da corrispondente negli Stati Uniti e in Medio Oriente? Quali differenze ha riscontrato tra le due realtà?
La società statunitense è formale, si basa sul rispetto di regole istituzionali, politiche e comportamentali ed è molto simile a quella tedesca. Non conosco un altro Paese in cui vige un simile set di formalismi e ciò spiega molte crisi internazionali. Se negli Stati Uniti lo sforzo è comprendere questo sistema di norme, in Medio Oriente è esattamente l’opposto: non ci sono regole ed è fondamentale capire ciò che hai in comune con il tuo interlocutore. Conta il rispetto dell’altro. Per capire tutto questo bisogna calarsi dentro il loro modo di essere e la loro abitudine. In entrambi i casi, la chiave è sempre la stessa: ascoltare l’identità degli altri, mettere in discussione le proprie reazioni personali e studiare molto.
Dare particolare risalto alle storie e ai lettori del nord-ovest è sintomo di una progressiva localizzazione de La Stampa?
Senza la cronaca di Brooklyn, il New York Times chiuderebbe domattina, perché è il giornale di New York. Lo stesso meccanismo vale per La Stampa, che deve valorizzare il più possibile il territorio. Ma con una differenza. Quando ho iniziato la mia esperienza da direttore, ho incontrato i lettori dei quartieri di Torino: la cosa che mi ha più sorpreso è che vogliono sapere non solo cosa succede nella loro zona, ma anche a Bruxelles, Washington o Tokyo. La Stampa, quindi, rispecchia le richieste del suo pubblico, attento non solo al locale ma anche al nazionale e al mondo.
Una delle grandi questioni del giornalismo contemporaneo riguarda il modello di sostenibilità economica. Per la versione digitale de La Stampa si va verso un modello di accesso a pagamento oppure no?
Finora, l’informazione online si è concretizzata soprattutto nei siti di informazione. Oggi però per la pubblicità online si ottiene molto molto poco. Il motivo è che i padroni assoluti del mercato pubblicitario sono due soggetti: Google e Facebook. Loro impongono i prezzi delle inserzioni pubblicitarie, li abbassano e distruggono la concorrenza. Si ha perciò un paradosso: pubblico in crescita su siti che non rendono economicamente, e, allo stesso tempo, flusso in diminuzione per i prodotti cartacei che invece continuano a rendere perché il valore della pubblicità cartacea tiene. Il futuro sarà l’informazione generalista gratis e nuovi prodotti digitali a pagamento. Sono però ottimista perché credo sia uno sviluppo ineluttabile, e credo che questo processo, accompagnato alla moltiplicazione delle piattaforme, porterà alla creazione di tanti posti di lavoro. Credo che ci saranno più giornalisti, ma anche più professionalità nei giornali, tutte essenziali.
Leggendo i dati del mercato sembra che l’elezione di Trump abbia influito positivamente sulla vendita dei giornali. Secondo lei Trump può fare bene, o sta già facendo bene al giornalismo?
Trump ha identificato i suoi avversari nei grandi mezzi di informazione e di conseguenza li ha trasformati in protagonisti. Mentre prima la loro importanza specifica nel dibattito pubblico americano tendeva a ridursi adesso invece è lui stesso che la esalta. Per alimentare e rafforzare il suo legame con la sua base elettorale avvalorare il motivo per cui è stato eletto. La sua missione è il conflitto. Trasforma ogni avversario in uno strumento della sua politica. Tanto più i giudici lo attaccano, tanto più i giornali lo attaccano, tanto più il mondo dello spettacolo lo attacca, tanto più lui è legittimato, agli occhi dei suoi elettori. Tutto questo è finalizzato a guadagnare tempo a sufficienza per riuscire nell’unica cosa che i suoi elettori gli chiedono: aumentare i posti di lavoro.
All’inaugurazione del master in giornalismo lei ha detto che andrebbero riscritti gli indicatori con i quali misuriamo la felicità. Adesso ha ribadito il concetto dicendo che anche chi guadagna può essere povero. Quali sono le misure di welfare che i governi devono mettere in campo per combattere le nuove povertà?
C’è grande insoddisfazione per le disuguaglianze nei nostri Paesi, soprattutto da parte del ceto medio a cui i governi non sanno rispondere. Sono in ritardo nella lettura e nell’interpretazione della povertà. Ne abbiamo un’idea ottocentesca, pensiamo che un individuo sia povero se ha un reddito molto basso. La verità è che oggi la povertà riguarda il sogno del ceto medio, che di generazione in generazione è sempre stato quello di vivere meglio dei propri genitori. La nuova definizione di questo concetto coincide con una richiesta di sicurezza economica. Nel Novecento siamo stati abituati alle grandi battaglie per i diritti civili, questi sono diritti economici. Il ritardo con cui la politica tradizionale affronta questa istanza crea delle voragini nelle quali qualsiasi forma di protesta si sente sempre più legittimata. Alla base del ritardo dei governi nell’analisi, nella comprensione e nella risposta a questo tipo di necessità, a mio avviso c’è la mancanza di parametri che possano leggere in maniera scientifica e corretta l’economia di un Paese. Bisogna sanare un vulnus che prima di tutto è scientifico.