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Intervista a Don Ciotti, “la forza della mafia sta nei vuoti della politica”

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Don Luigi Ciotti per molti non è solo un uomo di Chiesa, è un simbolo della lotta alla mafia in Italia. Fondatore e presidente dell’associazione Libera, nonché ispiratore di Gruppo Abele, ha trascorso gran parte della sua vita a combattere a favore della giustizia sociale. Da anni vive sotto scorta.

 A Locri, il presidente Sergio Mattarella, fratello di una delle oltre 950 vittime innocenti delle mafie, ha affermato: “La mafia è ancora forte”. È d’accordo?

“Sì, direi anzi che le mafie sono ancora più forti perché hanno approfittato della globalizzazione, cioè della progressiva trasformazione delle democrazie in economie di mercato in cui il principio del profitto sostituisce quello del bene comune. Ciò con tutti i noti effetti di disuguaglianza e povertà diffuse. Per contrastare le mafie, che si sono perfettamente adattate a questo sistema, bisogna quindi contrastare prima la corruzione che è l’intreccio fra criminalità organizzata, politica e economica. La corruzione è l’anticamera della peste mafiosa, il terreno che le permette di espandersi”.

La giornata del 21 marzo, che viene celebrata da 22 anni, è stata recentemente riconosciuta dallo Stato. In questo arco temporale l’iniziativa è riuscita a moltiplicare le coscienze e aiutare la memoria?

“Credo proprio di sì, perché sin dall’inizio ha sottolineato e praticato il legame fra la memoria e l’impegno. Tra la memoria e il concreto darsi da fare per risvegliare le coscienze e costruire le condizioni per una società più libera e giusta. Altrimenti ci si ferma alla retorica della memoria, alla celebrazione di maniera. Quelle persone  (le vittime innocenti delle mafie, ndr) non sono morte per questo, ma per un ideale di democrazia che sta a noi realizzare”.

Nel XXI secolo, le organizzazioni mafiose sono ancora così fortemente localizzate nel sud?

“Sì, ma i loro affari li fanno al nord dove circola il denaro. Sulla diffusione delle mafie al nord c’è stata molta miopia e in certi casi malafede. Eppure la trasformazione della mafia in impresa non era sfuggita all’occhio acuto di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Pio La Torre, di Giovanni Falcone per fare tre esempi. Per non parlare di don Luigi Sturzo, che addirittura nel 1900 aveva detto della mafia: ‘ha i piedi in Sicilia, ma la testa forse a Roma’ e ancora ‘diventerà più crudele e disumana, dalla Sicilia risalirà l’intera penisola per portarsi anche di là delle Alpi’ “.

Libri, film e serie tv, strumenti alternativi per parlare di mafia, sono sufficienti per non dimenticare? E rendono onore ai temi che trattano?

“Dipende dalla qualità. Il rischio è quello della spettacolarizzazione fine a se stessa. E quindi di far passare l’idea che le mafie siano solo cosche sanguinarie e criminali. Se così fosse, la magistratura e le forze di polizia le avrebbero da tempo eliminate. La mafia più pericolosa è quella che si annida in noi e che si chiama corruzione: mafia della complicità e dell’omertà, delle coscienze dormienti o addomesticate. La forza delle mafie sta nei vuoti della politica e nella nostra inerzia di cittadini egoisti e indifferenti”.

CRISTINA PALAZZO