Tra passato e futuro, la Torino che mangia raccontata da Luca Iaccarino

condividi

A Torino ci sono 2.700 esercizi commerciali in cui è possibile mangiare, il quaranta per cento in più rispetto a dieci anni fa. Anche dal cibo è possibile capire com’è cambiata la città e i suoi abitanti a partire dalle Olimpiadi invernali del 2006: l’apertura di Eataly al Lingotto, la religione del chilometro zero, e tutte le stelle Michelin che nella città della Mole sono tante.
Se si vuole capire la Torino che mangia la miglior persona con cui parlare è Luca Iaccarino, scrittore, giornalista di Repubblica e Vanity Fair, food editor di Edt e curatore, insieme a Stefano Cavallito e Alessandro Lamacchia, della collana di guide ai ristoranti e alle trattorie I Cento.
Nel suo ultimo libro Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi di Torino (Edt, 8,90 euro), oltre ai misteriosi omicidi di Matteo Baronetto e Davide Scabin, racconta il tramezzino di Mulassano e la storia del suo nome, la nascita di San Salvario, il vermouth inventato da Antonio Benedetto Carpano senza il quale non esisterebbe il Negroni e nemmeno l’Americano, la merenda sinoira, gli agnolotti ai tre arrosti…: “Abbiamo la fortuna di vivere in una città in cui la cultura gastronomica è sempre esistita. Il cibo qui non è una moda, è sempre stato così”.

Di mangiare si parla mangiando, anzi, dopo avere finito un piatto di antipasti misti piemontesi al Caffè Vini Emilio Ranzini di via Porta Palatina, il suo posto del cuore, dove il tempo si è fermato agli anni Settanta e i clienti vengono accolti con lo stesso familiare “odore di umido e di barbera”.

Come sono cambiate le nostre abitudini alimentari?
“Trent’anni fa, in Italia, la cultura del cibo si stava prosciugando, sembrava che non ci fosse più niente da dire. Nel 1986 a Bologna è stato aperto Mc Donald’s che è stato il primo fast food italiano. Per fortuna Carlin Petrini ha reagito subito e in maniera efficace e lo stesso anno, a Bra, che dista sessanta chilometri da Torino è nato Slow Food”.

Petrini nel 1989 è stato tra i fondatori del movimento internazionale per la Difesa e il Diritto al piacere.

“Da allora sono successe cose interessanti. Abbiamo ritrovato la tradizione e la passione, siamo diventati consumatori più attenti e consapevoli. Adesso mangiamo meglio e cuciniamo meglio”.

Cos’è successo ai ristoranti? E ai loro cuochi, onnipresenti in televisione e nelle copertine di giornali?

“Io credo che finalmente è stata data a una bella professione la luce che si meritava. Prima le cucine erano un inferno di fiamme, ustioni e grembiuli sporchi che non interessava a nessuno. Detto questo, il lavoro dei cuochi, secondo me è una favolosa opera di artigianato, ma non è arte”.

Sei un mangiatore fieramente pop, adori osterie, trattorie e i bistrot contemporanei, ma conosci il cyber egg di Davide Scabin del Combal.Zero, la cucina stellatissima di Enrico Crippa ad Alba, dove recentemente hai mangiato una “performance culinaria” ispirata all’arte di Marina Abramović, e hai appena prenotato al Noma di Copenaghen…

“Quello è davvero un posto pazzesco. Ecco, quando entri in locali di questo tipo, non devi avere la risposta pronta che alcuni hanno di fronte all’arte contemporanea e cioè potevo farlo anche io. Non è vero, e poi non serve a niente sfidare il cuoco, se no tanto vale rimanere a casa propria. Detto questo non bisogna esagerare con i cerebralismi: innovazione, avanguardia e tecnica devono portarsi dietro gusto e sostanza, un’idea, certo, ma che sia commestibile e piacevole”.

Dove sta andando la ristorazione?
“Stiamo vivendo un momento magico. Forse saremo gli ultimi a vedere la ristorazione artigianale come la intendiamo. Siamo, secondo me, in un momento di passaggio tra due epoche industriali. Secondo me ciò che accadrà sarà una ristorazione di qualità ma di tipo seriale, delle catene di ristoranti con la stessa impronta. Antonino Cannavacciuolo ha aperto il suo bistrot a Torino, forse nel futuro di questi ristoranti ce ne saranno venti, cinquanta. Il cuoco diventerà un brand, come Alain Ducasse.

Come si mangia a Torino?
“Credo che la nostra città sia la migliore in cui mangiare a una fascia media di qualità e prezzo. Le saracinesche che si alzano e si abbassano a volte mi fanno impressione. Ma indicano che c’è movimento. Poi mi stupiscono alcune offerte che hanno del surreale: ci sono posti in cui si fanno solo pop corn o solo patatine fritte oppure posti aperti in mancanza di idee alternative. Alcuni architetti decidono che il cibo possa essere un piano B. Di questo i clienti si accorgono, infatti durano poco”.

Il cambiamento di Torino si può notare anche dal menù dei ristoranti?
“Io credo che i locali possano raccontare in maniera abbastanza precisa la realtà sociale che ci circonda. Resistono i locali storici con la loro clientela che sembra uscita dai libri di Fruttero e Lucentini: penso al Vittoria, al Gran Carlo o al Gatto Nero. Poi ci sono luoghi figli delle migrazioni dal sud al nord Italia come la trattoria Cinzia e Da Felice e i luoghi frequentati dalla Torino operaia come Junior Grill in via Marochetti dove un primo costa due euro e venti e cucinano ancora le pere cotte nel vino”.

E le novità?
“Quando i flussi migratori hanno cambiato posti, negli anni Ottanta, ha aperto il primo kebabbaro a Torino. Da allora in città si possono trovare doner, kebab, kebap, ristoranti marocchini, turchi, egiziani oltre naturalmente ai cinesi e ai giapponesi che stanno cambiando le abitudini alimentari dei torinesi. Poi ci sono i bistrot contemporanei, come il Magazzino 52, altro posto del cuore, Consorzio e Scannabue che guardano alla tradizione ma senza esserne costretti. Sono i posti che preferiscono perché guardano a ciò che succede in altre parti del mondo, guardano la qualità ma non sono schiavi di cucine cosiddette gourmet né nel giudizio Michelin”.

Non c’è il rischio che diventi tutto un po’ confuso?
“È la modernità, la mappa dei locali dà l’idea della confusione contemporanea. E noi dobbiamo cambiare seguendo i tempi che cambiano. A Torino abbiamo la fortuna di avere avanguardia e tradizione, ostriche virtuali e agnolotti del plin, le antiche maniere sabaude e giovani cuochi che sanno distruggerle con grazia. Un giorno Vincenzo Cerami ha detto che rispetto alla fissità delle ideologie che costringono e inchiodano è preferibile un po’ di confusione e di spaesamento. Questo vale dappertutto. Anche in cucina”.

GIORGIA MECCA