È considerato il “padre dei blogger” a Teheran, città dove è nato e dove ha scontato una pena di sei anni per aver sfidato il governo, esercitando la sua libertà di espressione e di critica. Giornalista, attivista e blogger, Hossein Derakhshan è stato un pioniere nell’uso di internet come mezzo di comunicazione politica. Il suo sito, hoder.ir, è stato il primo e più importante blog di informazione in Iran, nonché il primo scritto sia in farsi che in inglese. Come primo gesto, dopo la liberazione avvenuta nel 2014, Hossein è corso a condividere la sua gioia in rete, ma quello che ha trovato, dopo essere stato forzatamente offline per anni, era un luogo molto diverso da quello che aveva lasciato. I blog erano ormai al tramonto e Facebook contava un miliardo di account. Oggi Derakhshan è un convinto difensore dell’open web, contro lo strapotere dei social network, per trovare una risposta alla domanda che tanti si pongono: i social network possono avere lo stesso ruolo dirompente che in passato hanno avuto i blog?
“No, i social media non sono realmente social, e neanche media a dirla tutta. È una forma neo-liberale e privata di intrattenimento, il cui unico obiettivo è sfruttare il nostro bisogno di essere assecondati e rassicurati nella comodità delle nostre abitudini. I social prendono gratis le nostre preferenze, i nostri valori e le nostre abitudini e le rivendono ad aziende pubblicitarie, corporations come banche, assicurazioni e Stati, e noi partecipiamo felicemente a questo schema diabolico. Siamo più vicini a Brave New World che a 1984. I social network sono più capaci di intrattenere della televisione e anche più dannosi per i valori democratici.”
Si riferisce a come l’algoritmo di Facebook sceglie cosa mostrare agli utenti?
“Esatto. Gli algoritmi filtrano la realtà sulla base di cosa ci piace. Non ci sfidano a vedere altri punti di vista e ci rendono meno inclini a cambiare idea. Gli algoritmi sono speciali monopoli segreti. Nessuno ha la capacità di analizzarli, eppure hanno una incredibile influenza sulla nostra vita di ogni giorno. Forse più degli stessi Stati. Decidono cosa leggiamo, vediamo, compriamo o votiamo. Sono i veri Frankenstein di cui abbiamo sempre avuto paura. Li abbiamo creati perché potessero uccidere noi e i nostri successi.”
Sia Facebook che Twitter ora consentono l’accesso alle notizie direttamente dalle loro app, senza passare dai browser. Pensa che nel futuro la nostra esperienza nell’utilizzo di Internet sarà solo sulle app ufficiali e fuori dall’open web?
“La app di facebook viene già identificata come “Internet” per la gran parte degli utenti. La gran parte di loro non apre neanche più i browser. Questo sta facendo male all’open web e a tutte quelle fantastiche caratteristiche che l’hanno reso uno strumento formidabile: libertà di creare contenuti aperti, interconnettività, decentralizzazione, non linearità e così via…”
Quindi l’open web sta morendo. Qual è il suo piano B?
“Vedo in Google e Wikipedia la nostra ultima speranza. Anche Google sta muovendo verso un web più chiuso, fornendo servizi come YouTube: i soldi dopotutto sono lì. La chiusura e la linearità vendono, il resto muore. È tornata l’era della televisione, come negli anni ‘90. Tutto ciò che è basato sul testo scritto è in pericolo, come con Twitter o Medium. L’umanità sta subendo un grande cambiamento, dalla tipografia alla fotografia, dalla ragione alle emozioni, e così stiamo distruggendo il più grande traguardo di questo millennio: l’illuminazione.”
Nel passato leggere un articolo su un blog richiedeva del “tempo e una tazza di caffè” come ha scritto sul suo blog. Ora le persone, nella migliore delle ipotesi leggono prima di condividere un contenuto, altrimenti consigliano alla cieca. Stiamo perdendo empatia verso ciò che leggiamo?
“Questa è la crisi della civiltà. La gran parte degli utenti dei social nel mondo diventeranno presto illetterati, capaci solo di guardare, non leggere. La televisione sta divorando noi e la società. È un problema serio. Si stanno verificando le profezie distopiche di cui ci hanno sempre parlato le science fiction. Ma noi le avevamo scambiate per storie.”