“La domanda è: il giornalismo è una forma di attivismo? Sì, ma verso la verità e la credibilità”. Indira Lakshmanan, executive editor del Pulitzer Center on Crisis Reporting ed editorialista del Boston Globe, ha aperto così la sua masterclass a Torino, ospite del Master in Giornalismo, oggi 2 aprile, giornata mondiale del fact-checking.
Indira Lakshmanan ha seguito campagne elettorali, guerre e colpi di Stato per Globe, Bloomberg, The New York Times International, NPR, PBS, Politico Magazine. Ha viaggiato per sette anni con i segretari di Stato Hillary Clinton e John Kerry. Ha curato una rubrica di politica estera, “Letter from Washington”, per il New York Times International e Bloomberg. Come corrispondente dall’estero ha seguito la guerra in Bosnia, la caduta dei talebani in Afghanistan, ha intervistato leader politici come Benazir Bhutto, Fidel Castro e Hugo Chavez. È stata a contatto con i pirati delle Filippine, i ribelli maoisti in Nepal e i Khmer Rossi cambogiani. Le sue inchieste hanno rivelato l’impiego di lavoro minorile in Bolivia, il disboscamento illegale in Brasile, casi di corruzione in Cina e l’incarcerazione di bambini in Nepal.
La verità, spiega la giornalista americana, non è sinonimo di oggettività, perché ognuno di noi deve confrontarsi con i propri pregiudizi e punti di vista, ma se “è impossibile essere oggettivi, è importante che il giornalista sia corretto ed accurato”. Ciò significa che nel lavoro del giornalista non deve riconoscersi alcun indirizzo che sia riferibile ad un ambito politico, sociale. “Per questo le redazioni americane hanno regole ferree per bloccare azioni controverse, come donazioni a candidati politici o a cause che possono essere discutibili, come gruppi pro o anti abortisti o anche solo Greenpeace, vista come un’associazione ambientalista attivista”, ha detto Indira Lakshmanan.
Il modo in cui i giornalisti raccontano le notizie deve essere più diretto. Un metodo efficace, secondo il linguista George Lakoff, è quello del “truth sandwich”: “Bisogna per prima cosa comunicare i fatti, poi riportare i dati controversi e quelli falsi, smascherandoli, e infine ribadire la verità. Un buon reporter segue i fatti e va dove questi portano, senza pregiudizi” ha detto Lakshmanan. E il fact checking è uno dei mezzi per restare su questa strada.
Al di là della naturale attrazione verso i titoli clickbaiting, infatti, per Indira Lakshmanan il pubblico riconosce il valore dei fatti e dai fatti il giornalista deve partire per combattere le fake news. Secondo la giornalista americana è importante spiegare perché una notizia è falsa, non è sufficiente bollarla come scorretta. Il fact checking deve essere accurato e accessibile, ma è importante che ci sia anche un appello alle emozioni del lettore, perché spesso i fatti da soli non bastano e serve una forma di coinvolgimento. Quali effetti si producono? “Quando una dichiarazione viene smentita, chi la stava propagando non si scusa, ma smette di sostenerla. È però vero che alcuni politici pensano che ogni copertura mediatica sia una buona copertura, quindi non gli interessa venire smentiti, l’importante è che si parli di loro”.
È quello che si sta verificando in Usa sotto la presidenza di Donald Trump che ha potuto bollare i media come “nemici del popolo”, trovando l’appoggio di una larga parte della popolazione americana. Trump è riuscito a capitalizzare un certo risentimento contro i media, facendo sì che molto di quello che si legge sui giornali venga percepito come fazioso.
“I politici di destra accusano i media di avere dei supposti bias liberal-democratici. Anche la sinistra americana non ha risparmiato critiche al lavoro giornalistico, accusato di dare tempi uguali ad argomentazioni fondate e altre che potrebbero essere false, come il fatto che il cambiamento climatico non abbia effetti”.
Da parte loro, anche i network americani non sono stati capaci di contrastare questa deriva, limitandosi spesso a riportare le dichiarazioni dei politici, senza un’adeguata verifica e ritenendole di per sé inaffidabili. I media e le redazioni americane, soprattutto quelle delle grandi città costiere come New York e Los Angeles, sono in gran parte composte da giornalisti usciti dai college che spesso vivono in una bolla ideologica, per la quale le dichiarazioni del presidente Usa non erano degne di attenzione. “Ma la realtà spesso è ben diversa. Molti si informano solo su Fox News o su altri canali via cavo. La maggior parte della popolazione non è collegata con tutti i media, come i giornalisti, e la ricerca dell’informazione non è la loro attività primaria, dunque è più portato a credere a quello che dice Trump”.
L’esempio è dato dalle affermazioni del presidente degli Stati Uniti sulla delinquenza degli stranieri: “Gli immigrati, di ogni provenienza, commettono molti meno crimini degli americani – ha detto Indira Lakshmanan – ma i media hanno continuato ad amplificare ciò che diceva Trump e non hanno fatto capire in modo adeguato che queste affermazioni fossero false”.
Qual è il compito del giornalismo e perchè sta sbagliando? “È stato a lungo un modo per perseguire la giustizia sociale. Conforta gli afflitti e affligge i comodi. Dà voce a chi non ha voce”, ha continuato la giornalista. “Secondo Lakshmanan esistono zone aride d’informazione, che definisce “news deserts”, in cui i giornalisti devono intervenire. Bisogna analizzare come questi luoghi si siano formati e fare in modo che il giornalismo si adatti a queste realtà e ne inverta la tendenza.
Qualcosa sta già cambiando. In America, secondo i dati dell’Edelman Trust Barometer, si sta registrando un ritorno della fiducia verso i media, che ha toccato il punto più basso a ridosso dell’elezione di Donald Trump.
“Le motivazioni del giornalista sono rendere responsabili il governo e il mondo degli affari – ha concluso Indira Lakshmanan – e fare un servizio pubblico migliore. Ogni cittadino di ogni nazione desidera che questi elementi coincidano: se si riesce a spiegarlo, si può fare molto per costruire la fiducia”.