Quando Mark Zuckerberg ha detto al New York Times di voler dedicare il 2018 a risolvere il problema delle notizie false su Facebook, nessuno avrebbe immaginato che sarebbe passato così velocemente dalle parole ai fatti. Ci sono stati due importanti annunci negli ultimi giorni da parte dell’amministratore delegato del primo social network per numero di iscritti. Ed entrambi riguardano, anche, i giornali.
L’ultimo (in ordine di tempo) è di sabato 19 gennaio. In un post Zuckerberg ha scritto che saranno gli utenti a valutare la qualità delle fonti d’informazione presenti sul social network e a decidere, di conseguenza, quali contenuti saranno privilegiati dall’algoritmo. Che cosa ne pensano i più importanti giornali italiani?
Per Marco Lo Conte, a capo del team di giornalisti che gestiscono i social network del Sole24Ore, la strategia di Zuckerberg non ha il pregio della chiarezza: “Assistiamo a un atteggiamento ondivago da parte dei vertici di Facebook, alla ricerca di una soluzione che possa arginare il problema delle fake news”. La decisione di affidare a una giuria popolare il giudizio sulla qualità dell’informazione sul social network “non è sbagliata a priori – continua – ma non servirà a ripulire la piattaforma social dalle bufale”. Bruno Ruffilli, esperto di tecnologia a capo dei canali social della Stampa, ha un’opinione diversa. Non è ancora chiaro quali saranno i criteri valutativi (Zuckerberg ha fatto riferimento ai sondaggi di qualità già presenti sulla piattaforma). “Ma è una follia – spiega Ruffilli – chiedere agli utenti di giudicare qualcosa che non necessariamente conoscono”.
Il primo cambiamento annunciato da Zuckerberg giovedì 11 gennaio è di carattere più generale e riguarda i giornali indirettamente, in quanto produttori di “contenuti passivi”. Si tratta di un nuovo algoritmo che dovrebbe far tornare Facebook alle origini, favorire le relazioni personali, le amicizie, mettendo in risalto quindi i post degli utenti individuali con i quali vogliamo interagire e non i video o i link provenienti da pagine che fanno capo a testate giornalistiche o aziende.
I giornali sono preoccupati? Sara Bertuccioli gestisce gli account social di Repubblica dal 2012: “All’inizio erano poche le testate che avevano scelto di portare i contenuti su Facebook o Twitter – spiega – e di cambiamenti, da allora, ce ne sono stati parecchi: in passato, ad esempio, l’algoritmo ha privilegiato le immagini o i video nativi. Ogni volta – continua – abbiamo provato a trovare la strada migliore per spingere i post di Repubblica sulla piattaforma, cercando un compromesso tra la viralità e il requisito fondamentale della notiziabilità. Oggi il 15 per cento del traffico viene dai social network. La pagina di Repubblica – conclude – fa numeri alti, molti utenti interagiscono con i post. Insomma, Repubblica crea quel dialogo che Zuckerberg ha detto di voler privilegiare”.
“Dal punto di vista del traffico, i social network non sono fondamentali per La Stampa”, spiega Marco Sodano, digital editor del quotidiano torinese. “Personalmente non credo alla morte della homepage – continua riferendosi allo scenario per cui gli utenti arriverebbero al sito web soprattutto tramite i link sui social – c’è un mucchio di gente che la mattina si alza e digita il nostro indirizzo web per leggere le notizie senza passare da un filtro. Simili cambiamenti dell’algoritmo ci sono già stati in passato. L’esperienza ci ha insegnato che il crollo delle visualizzazioni di un certo tipo di contenuto viene compensato dall’aumento del traffico proveniente da link con diverse caratteristiche”.
“Per il nostro sito web è più importante essere tra i primi risultati nelle ricerche di Google – spiega ancora Ruffilli – può capitare che un determinato tema o avvenimento torni di attualità e le persone vadano su internet a cercare informazioni a riguardo. Tramite questo meccanismo – continua – alcuni articoli, scritti a distanza di mesi, tornano tra i più letti”.
Neanche Marco Castelnuovo, mobile editor del Corriere della Sera, è particolarmente preoccupato dalle possibili ripercussioni del nuovo algoritmo: “I social network valgono il 15 per cento di traffico sul sito del Corriere – spiega – siamo su Facebook perché non si può ignorare una piattaforma su cui interagiscono 30 milioni di italiani. Il primo passo – continua, delineando eventuali modifiche del piano editoriale – sarà monitorare le visualizzazioni e le interazioni sulle pagine Facebook del Corriere, quindi distribuire le risorse nel modo migliore possibile: se osserveremo, ad esempio, un calo di traffico nel comparto video, concentreremo gli sforzi nel promuovere i nostri link nei gruppi”.
L’ennesimo cambiamento della policy di Zuckerberg riapre il dibattito sul rapporto tra Facebook e il mondo dell’informazione. Per Sodano “sono più preoccupati i social network di avere i contenuti dei giornali che i media di usare certi servizi. I ritorni in termini economici dello stare su Facebook sono bassissimi, senza contare che i costumi degli utenti possono evolversi molto rapidamente: insomma – conclude – non sono sicuro che i social network siano il futuro”. Parere in parte contrario quello di Castelnuovo: “Facebook ha il coltello dalla parte del manico, immagino che nei prossimi giorni i quotidiani si adeguino a promuovere i contenuti che Zuckerberg ha annunciato di voler favorire, ovvero quelli che racimolano più “mi piace” e commenti. Con il Corriere abbiamo puntato su personaggi che hanno un buon seguito sui social, ad esempio Milena Gabanelli, con la rubrica Dataroom, o Massimo Gramellini”. Il rapporto tra il Corriere e la piattaforma social è caratterizzato da un perenne confronto alla ricerca del comune interesse: “Siamo disposti a muoverci entro le coordinate stabilite dallo stato maggiore di Facebook, ad esempio pubblicando contenuti che stimolano i nostri lettori a interagire, senza però rinunciare ai doveri e alle esigenze di un giornale”.
All’estero il fenomeno è discusso dagli esperti di media sui social. Mathew Ingram, studioso dei media, scrive sulla Columbia Journalism Review+ che “il nuovo sistema, disegnato innanzitutto per incoraggiare la conversazione e generare reazioni”, premierà i siti di fake news o quelli che riportano i fatti ampiamente esagerati. Infatti, mentre la verità deve essere bilanciata e oggettiva per definirsi tale, “la disinformazione è sempre più interessante della verità” e “infiamma più facilmente le passioni delle persone”. Secondo Emily Bell, editorialista del Guardian e direttrice del Tow Center for Digital Journalism della Columbia University (un centro studi che analizza il rapporto tra giornalismo e tecnologia), i giornali tradizionali devono ripensare la loro strategia e non dipendere più così tanto dai social, ma Facebook deve prendere atto una volta per tutte di essere una “media company” e comportarsi secondo un’etica editoriale e non di azienda puramente tecnologica. Il fatto che di fronte alle difficoltà decida di ritirarsi dal campo dell’informazione non la esime dalla responsabilità, perché sul social network le informazioni continueranno a girare.