Europa, geopolitica, longevità, dazi: sono solo alcuni dei temi affrontati dal 30 maggio al 2 giugno, durante il Festival Internazionale dell’Economia di Torino. La quarta edizione del Festival, diretto da Tito Boeri, è stata dedicata a “Le nuove generazioni del mondo” con più di cento incontri e trecento ospiti tra economisti, sociologi, demografici, scrittori e psicologi. Il focus, infatti, era proprio sui giovani e sulle sfide che dovranno affrontare tra crisi demografica, cambiamento climatico, rivoluzione digitale.
L’importanza delle reti sociali
In un tempo che sembra segnato dal crescente individualismo, una prima suggestione che viene dal Festival è l’importanza delle reti sociali, delle comunità. “C’è una correlazione di 0.6 (in una scala che va da 0 a 1, ndr) tra il successo futuro dei bambini e la loro appartenenza a reti sociali con elevate connessioni” ha sostenuto Matthew James durante l’incontro Reti sociali, capitale sociale e mobilità economica nel XXI secolo. James ha studiato, negli Stati Uniti, il rapporto tra le amicizie delle persone chiedendosi: prendendo una persona il cui reddito è sotto la media nazionale, quanti dei suoi amici o delle sue amiche hanno un reddito superiore alla media nazionale? Questo dato è rilevante perché, spiega ancora James, ha a che vedere con le opportunità che ci si presentano: spesso si trova lavoro grazie a conoscenti, familiari o amici. Ma cosa accade se la nostra cerchia è composta esclusivamente da persone a basso reddito? Secondo James, si entra in uno scenario di immobilità sociale – cioè, una situazione nella quale il futuro dei figli è ampiamente condizionato da quello dei genitori – e di ineguaglianza sociale. La scarsa integrazione tra persone provenienti da backgrounds socio-economici diversi deriva in parte dalla diversa modalità di creazione dei legami: “In prevalenza, le persone povere stringono amicizie nel quartiere, la classe media al lavoro e i ricchi nelle università” prosegue James. Le persone più abbienti avranno così reti più ramificate, non solo geograficamente, di cui beneficiare. Tra le possibili soluzioni, secondo James, c’è la necessità di accettare di diminuire la produttività di oggi per accrescere quella di domani, che andrà di pari passo con maggiori mobilità ed uguaglianza. Ma non solo: è necessario incoraggiare la formazione di legami “cross group”, anche grazie ai social media. I social, tuttavia, esercitano un’azione ambivalente: se, da un lato, consentono una crescente possibilità di connettersi con numeri sempre più grandi di persone anche molto lontane, dall’altro facilitano la possibilità di selezione.
L’incognita Trump
A tenere banco in molti dei panel del Festival è stata la discussione su Donald Trump e sulle sue politiche economiche spregiudicate. Il premio Nobel per le Scienze economiche nel 2001, Michael Spence, durante il talk Una nuova visione economica per l’Europa ha commentato: “Dopo l’annuncio dei dazi, è aumentata la volatilità, che ha causato la vendita di azioni ed obbligazioni, il crollo del dollaro e il congelamento del mercato dei treasuries. L’unico soggetto ad avere influenza sulla politica economica statunitense oggi è il mercato”. E a Tito Boeri, che gli chiede se del crollo del dollaro possa beneficiare l’euro come valuta di riferimento, risponde che in Europa i mercati di obbligazioni governative sono troppo piccoli, e quindi volatili. Sul tema della volatilità si è concentrato anche Carlo Cottarelli, in riferimento a bitcoin, la criptovaluta a favore di cui Trump si è ampiamente espresso: “La volatilità di bitcoin è sette volte quella del mercato azionario”. E anche rispetto alle stablecoins, che promettono di essere stabili rispetto a una valuta come il dollaro: “chi può garantire che la parità sia effettivamente mantenuta?”. Quanto all’insostenibilità della situazione economica attuale dall’altro lato dell’Atlantico, i due sono d’accordo ma adducono argomentazioni diverse. “La traiettoria fiscale americana è insostenibile, ma non sappiamo quando la situazione precipiterà” commenta Spence. E aggiunge: “Da parte di Trump c’è un scarsissimo interesse verso le strutture multilaterali e una predilezione per gli accordi bilaterali: che cosa accadrà all’economia globale, se siamo tutti interdipendenti? Lo scenario secondo me più probabile è che l’Unione europea formi relazioni con le principali economie emergenti, con Cina, India e Indonesia”. Cottarelli, invece, si concentra sul rapporto tra debito pubblico e Pil “che negli ultimi vent’anni è aumentato, fino ad arrivare a una situazione tecnicamente insostenibile”.
L’incertezza è stata il grande tema di L’Europa di fronte all’incertezza, il dialogo tra Elena Carletti, Pierre Gramegna e Federico Ravenna. “Trump è un fattore di elevata imprevedibilità e volatilità. Per la finanza, la volatilità può essere un’opportunità ma per l’economia reale è un grande rischio” ha commentato Carletti, che ha spiegato: “Se non ci saranno enormi fluttuazioni nei cambi e se non ci sarà un default dei treasuries, la finanza avrà delle opportunità. D’altro canto, sul fronte dell’economia reale, sale il rischio di credito percepito a esempio”. E sull’Unione europea, Carletti commenta: “Abbiamo bisogno di un’istituzione che ci aiuti a superare gli shock asimmetrici, dato che il rischio non è distribuito ugualmente: la Germania, a esempio, è particolarmente esposta perché esporta molto negli Usa e perché molta della manifattura tedesca è nel settore dell’auto”. Rilancia Gramegna: “Negli ultimi tre anni si è imposta una novità: parlare di come l’economia di un paese si svilupperà ci porta a parlare di geopolitica. Le relazioni internazionali, infatti, hanno assunto un rilievo enorme. Eppure, non dobbiamo dimenticare che anche la stabilità finanziaria è uno strumento di pace. Come Europa, dobbiamo fare di più per la difesa e soprattutto farlo insieme”. Ravenna osserva puntuale: “Anche escludendo dal quadro le guerre commerciali, la situazione economica americana presenta rischi di recessione per l’Europa. L’effetto sul Pil già si avverte: si è calcolata una perturbazione di produzione industriale che va dal 3 al 9% in un anno solo per l’Europa”.
Harold James, in Cosa significa per il mondo l’anti-globalismo di Trump?, spiega come l’anti-globalismo di Trump nasca dalla preoccupazione per il declino, per la perdita del primato. “Proprio il processo di mettersi in pari è l’essenza della globalizzazione, eppure la narrative di Trump è incentrata sulla necessità di fermare il declino americano”. In uno slogan, MAGA: Make America Great Again. Il costo, però, è quello a cui stiamo assistendo nella partita commerciale dei dazi. Ed è il peso di quel costo a spiegare, secondo James, “lo yo-yo che Trump sta facendo”.
Massimo Gaggi, durante il dialogo L’era Trump: una nuova idea di libertà e di impero? con Mario Del Pero, sostiene: “L’imprevedibilità era stata il tratto caratterizzante della politica estera durante la prima presidenza Trump. Ora, Trump sta portando l’arma dell’imprevedibilità nell’economia”. Del Pero ha iniziato il proprio intervento parlando della marginalizzazione del Congresso a favore dell’esecutivo: “Dall’inizio del suo mandato, Trump ha emesso circa 150 decreti presidenziali, ricorrendo sistematicamente a poteri emergenziali. A Biden sono serviti i quattro anni di presidenza per raggiungere quel numero”. A fare da scudo allo stato di diritto è, per il momento, il potere giudiziario, rappresentato dalle Corti. “Tuttavia, è problematico che Corti di primo livello (cioè con competenza territoriale, ndr) facciano ingiunzioni su scala nazionale. Nel momento, però, in cui le Corti non possono sanzionare l’esecutivo che non rispetti le loro pronunce o avere rispetto a quell’esecutivo poteri coercitivi, si entra in una crisi costituzionale” commenta Del Pero. Gaggi sottolinea poi il legame che il presidente Usa intrattiene con i tecnocrati, come Elon Musk, Peter Thiel e Marc Andreessen. “Il primo, Musk, si schiera apertamente con Trump dopo l’attentato del 13 luglio scorso. Il 14 luglio, con Thiel, fanno pressing affinché il vice-presidente sia J.D. Vance. Trump accetta e il 15 luglio, alla conferenza dei Repubblicani, presenta al suo elettorato Vance. Si è creata una convergenza di interessi tra la destra e i tecnocrati verso l’autocrazia, dati i lunghi tempi necessari ai Parlamenti per deliberare” argomenta Gaggi. Conclude Del Pero sulla “ostentata voglia di impero e di imperialismo, che si sostanzia in affermazioni come ‘vogliamo la Groenlandia’”.
La vita, il tempo e il loro valore economico
Andrew Scott in Da una società dell’invecchiamento a una società della longevità parla del paradigma della società che invecchia come di un problema malthusiano: “La popolazione cresce a ritmo esponenziale, le risorse a ritmo lineare”. Eppure, l’errore di Thomas Robert Malthus, spiega Scott è stato non prevedere la rivoluzione industriale, che ha creato nuove risorse attraverso le quali abbiamo acquisito la capacità di mantenerci più a lungo. Allo stesso modo, oggi, la crescita dell’aspettativa di vita (73 anni a livello globale) e la riduzione del tasso di nascite ci mettono davanti alla necessità di essere attivi per un periodo più lungo. La chiave per far sì che questo sia possibile, spiega Scott, è quella di concentrarsi sulla salute: “Dobbiamo migliorare il tempo che trascorriamo in salute in relazione alla vita nel suo complesso. L’optimum sarebbe raggiungere la crescita simmetrica dell’aspettativa di vita e di quella di anni in salute oppure rallentare l’invecchiamento biologico”. Sostiene infatti Scott che dovremmo concentrarci sulla prevenzione, sulla creazione di lavori sostenibili, tramite la flessibilità a esempio, anche per persone in età avanzata così che i giovani possano progredire nella carriera.
Alexander Mas in Stimare l’inestimabile: come gli economisti assegnano valore alla vita e al tempo parla proprio del valore economico della vita e del tempo. A esempio, la differenza nella retribuzione media tra Italia e Stati Uniti è, considerando il costo della vita, circa il 15 per cento. In Italia, però, si lavora una media di 40 ore a settimana mentre negli Stati Uniti questo numero cresce. Sostiene Mas: “La paga inferiore in Italia potrebbe derivare dalle diverse caratteristiche del lavoro”. O, in altri termini, a quanto denaro siamo disposti a rinunciare per ottenere condizioni migliori: negli Usa, i lavoratori sono disposti a rinunciare all’8 per cento dello stipendio per lavorare da remoto e addirittura al 21 per cento dello stipendio per avere orari regolari. Queste percentuali variano in base alla popolazione di riferimento: gli uomini, per esempio, sono meno propensi ad accettare riduzioni sul proprio compenso per ottenere orari più stabili. Quello del valore economico che assegniamo alle migliori condizioni lavorative, spiega Mas, è solo un esempio di un problema fondamentale per il policy making: come si quantifica il prezzo di beni che non si scambiano sui mercati?