La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Il femminismo di fronte alla guerra: riflessioni sui ruoli di genere con Elise Féron

condividi

Non è una novità che le guerre e i conflitti siano fortemente mascolinizzati. Basti pensare ai simboli e ai ruoli tradizionalmente associati alla mascolinità: forza fisica, abilità nell’uso delle armi e lealtà, intesa come obbedienza agli ordini. Anche il linguaggio è connotato dal genere: i vincitori sono forti, mentre il nemico viene sminuito con termini come “femminuccia”. Si consideri poi l’arruolamento: in molti Paesi a combattere sono principalmente gli uomini. A loro è affidato il compito di proteggere la Patria – spesso rappresentata con sembianze femminili – e le persone considerate vulnerabili, in particolare donne e bambini.

Elise Féron, docente e ricercatrice senior presso il Tampere Peace Research Institute, nel suo incontro “Il femminismo di fronte alla guerra” per Biennale Democrazia critica l’idea diffusa che vede gli uomini come combattenti e le donne come vittime: “Sia gli uomini sia le donne combattono, a volte in modi diversi e entrambi sono vittime”.

Gli stereotipi di genere condizionano la partecipazione e il ruolo degli individui nei conflitti. Gli uomini, spesso intrappolati in un’idea di mascolinità militarizzata, si trovano a dover rispondere all’aspettativa sociale di essere i principali protettori e combattenti. Questo obbligo, talvolta sancito anche dalla legge come la leva obbligatoria, spinge molti uomini a combattere contro la loro volontà, rafforzando il loro ruolo tradizionale di “difensori”. “È a causa di questa immagine di passività e debolezza delle donne, che gli uomini devono combattere: devi andare, perché altrimenti, chi proteggerà le donne? Chi proteggerà i villaggi? Chi proteggerà la comunità?”, continua.

D’altro canto, le stesse norme di genere tendono a escludere le donne dal combattimento attivo, relegandole a ruoli di supporto o riducendole a semplici simboli da proteggere. Spesso percepite come meno capaci di lottare a causa di presunti limiti fisici o emotivi, le donne vedono perpetuata l’immagine stereotipata della femminilità come sinonimo di debolezza e vulnerabilità. Nonostante ciò, studi dimostrano che le donne possono eccellere in ruoli come quello dei cecchini, superando gli uomini in precisione e cautela. Tuttavia, nelle forze armate convenzionali, rappresentano circa il 5% dei combattenti, mentre nei gruppi armati non statali la loro presenza può raggiungere il 40%.

Questa dinamica non solo limita la partecipazione delle donne in ruoli attivi e decisionali nei contesti militari e di conflitto, ma ha anche impatti più ampi sulla percezione sociale del loro ruolo e delle loro capacità. Inoltre, relegare le donne a ruoli passivi o vittimizzati può “giustificare e perpetuare altre forme di discriminazione e violenza di genere, sia in tempo di conflitto sia di pace”.

La violenza sessuale è spesso utilizzata come strumento di guerra, particolarmente rivolta verso le donne, ma anche verso gli uomini, sebbene in misura minore. Circa il 33% delle vittime di violenza sessuale è di sesso maschile, e subisce forme di violenza come mutilazioni o shock elettrici, meno riconosciute come tali rispetto allo stupro. Tuttavia, la maggior parte delle vittime, circa due terzi, sono donne più frequentemente soggette a stupri e ad altre forme di abuso sessuale come schiavitù sessuale e gravidanze forzate. “La violenza sessuale viene perpetrata sulle donne per umiliare gli uomini”, vengono attaccate le donne a loro vicine – madri, figlie, sorelle -, per mostrare la loro incapacità di proteggerle, fallendo così nel loro ruolo. Aspetto che si lega alla teoria che vede la violenza sessuale come un’arma di guerra e una strategia di pulizia etnica, come dimostrato dal caso della Bosnia negli anni ’90, dove le donne venivano sistematicamente violentate e trattenute fino a che non fosse troppo tardi per abortire, con lo scopo di cambiare l’etnia della popolazione.

Queste pratiche hanno radici profonde nelle norme sociali e culturali che persistono anche in tempo di pace, dove “i corpi femminili sono visti come territori da controllare e dominare”. Controllo che si estende a vari aspetti della vita delle donne: dalla regolamentazione del loro aspetto fisico e vestiario fino alle leggi su contraccezione e aborto, spesso decise da uomini.

Inoltre, le donne sono spesso forzate a ricoprire ruoli di supporto o di cura, consolidando la narrativa che le vede principalmente come custodi del focolare domestico piuttosto che come partecipanti attive. La loro autonomia è limitata, contribuendo così alla marginalizzazione, “rinforzando ulteriormente le strutture di genere esistenti che le vedono come meno capaci o meno importanti nel contesto bellico”. Le donne spesso diventano anche i principali fornitori di sostentamento quando gli uomini sono al fronte o vengono uccisi, esponendole a maggiori rischi economici e ponendole sotto un’enorme pressione per mantenere la stabilità familiare e sociale.

In tempo di pace, le modalità di violenza osservate durante i conflitti spesso non terminano con la fine delle ostilità ma si manifestano sotto forma di violenza domestica o abuso sessuale. Questo può essere aggravato da traumi di guerra non trattati e dalla destabilizzazione sociale che ne consegue. Anche in tempo di pace, le strutture di potere che marginalizzano le donne dalle decisioni politiche e sociali importanti continuano a esistere, restringendo le loro possibilità economiche e politiche e perpetuando la disuguaglianza di genere. Le donne sono frequentemente sottorappresentate nei negoziati di pace e nei processi decisionali che definiscono il futuro delle società post-belliche. Conclude Féron: “Circa il 15% dei negoziatori di pace e mediatori di pace sono donne. Ma chi sono queste donne? Parlano come lingua madre inglese, provengono da famiglie benestanti, da contesti privilegiati. Quindi forse la riflessione da fare è anche su quali donne rappresentano il potere”.



Articoli Correlati