Già 79 numeri, un anno e mezzo di vita, il giovedì come appuntamento fisso in edicola. Da novembre 2015 Origami è il settimanale de La Stampa, unica pubblicazione del giornale piemontese oltre l’edizione quotidiana.
Cesare Martinetti, giornalista de La Stampa da tanti anni e responsabile di Origami, è venuto nella sede del Master “Giorgio Bocca” per presentare il numero in uscita domani, giovedì 18, e dedicato alla 30° edizione del Salone Internazionale del libro, al Lingotto dal 18 al 22 maggio.
Martinetti, che cos’è Origami?
Origami è il settimanale de La Stampa e non un suo supplemento, quindi vive di vita propria. Volevamo fare qualcosa con la carta, senza volontà di essere anti-digitali, ma perché continuavamo a dirci che, nella travolgente onda del digitale, ci poteva essere spazio per le caratteristiche uniche della carta. Ovviamente c’è un sito a pagamento, che serve da vetrina per invogliare all’acquisto del formato cartaceo.
Come è fatto?
La caratteristica principale è evidente: è stampato su un unico foglio che si dispiega in diversi formati, dalla pagina al poster. Ogni numero tratta un solo tema da diverse prospettive e con diversi toni di voce. Dentro Origami si trovano diversi format giornalistici: l’intervista, l’intervento dell’esperto, l’opinione, la rilettura di un testo, l’infografica che mescola dati e immagini, la graphic novel. Quest’ultima in particolare è un nostro punto d’orgoglio: abbiamo pubblicato lavori di ragazzi giovanissimi appena usciti dallo Ied.
Proponiamo anche una rubrica tenuta da Sergio Serafini, il bibliotecario di Amatrice, che da Natale dell’anno scorso quasi ogni settimana scrive di libri da salvare, per tenere vivo il ricordo del terremoto. L’unico che ha scritto in tutti i numeri è Maurizio Maggiani, grande autore italiano, con la sua rubrica senza nome. Poi ci sono la poesia, la citazione, il gioco enigmistico, insomma tanti modi diversi per affrontare il tema della settimana.
Da dove nasce l’idea?
All’epoca il direttore era Mario Calabresi e io ero vice-direttore. Ci chiedevamo cosa inventare di nuovo per la carta. Il digitale camminava già con le sue gambe da tempo, seguendo l’evoluzione sua propria, che voi conoscete bene. È successo che ero a Parigi come inviato per seguire la vicenda dell’attentato a Charlie Hebdo e ho scoperto che in Francia dall’aprile 2014 esce questo settimanale che si chiama “Le Un”. Conoscevo bene il fondatore Eric Fottorino dai tempi in cui avevo il mio ufficio di corrispondente dentro la sede di “Le Monde”, di cui lui era capo-redattore. Abbiamo chiesto a Fottorino se fosse d’accordo che noi facessimo un giornale con le medesime caratteristiche di “Le Un”, senza esserne l’edizione italiana. Lui ha accettato e da lì è nato Origami. Con Maurizio Molinari il progetto è continuato e si è strutturato. Il contratto con i francesi prevede che su Origami non ci sia pubblicità: la pubblicazione si mantiene in vita solo se vende. In questo loro sono stati avventurosi perché sono editori di loro stessi, mentre per noi è stato relativamente più facile perché siamo dentro un’editrice.
E il settimanale vende?
Per ora va bene. Siamo a circa 5-10mila copie settimanali vendute nel primo anno, che significa mantenersi sulla soglia dell’equilibrio, se non leggermente meglio. I numeri incentrati su un personaggio vanno meglio degli altri, ma non possiamo fornire dati precisi. La situazione è positiva, anche perché altrimenti con i tempi che corrono non esisterebbe già più.
Da chi è composto il pubblico di Origami?
C’è un pubblico che si è affezionato alla testata, mentre ce n’è un altro che varia. Non tutti lo comprano tutte le volte. La variazione dipende dal tema della settimana.
I nostri acquirenti sono sparsi in giro per l’Italia, soprattutto in provincia, dove risiede il grande pubblico dei cosiddetti “forti lettori”. Il dato interessante è che Origami è molto acquistato e letto in territori dove La Stampa per tradizione non vende molto.
Si tratta di un pubblico molto esigente, che si fa sentire quando trova qualcosa che non va. Origami ha innescato delle dinamiche sorprendenti, che non avevo mai riscontrato su La Stampa: c’è un flusso di commenti molto curioso, molto critico e intelligente, che risponde in modo ragionato e pertinente.
Come viene deciso il tema del numero?
Affrontiamo qualunque tema meriti un approfondimento. Il primo numero è stato su Putin, quest’ultimo sul Salone del libro. In mezzo ci sono stati temi di società, culturali, di narrazione, per ragazzi, religiosi. La nostra bussola è ritrovare una funzione elementare e fondativa del giornalismo, che è quella di spiegare, di dare informazioni. Il nostro obiettivo non potrebbe essere rimanere nel flusso delle notizie: dobbiamo essere dentro al tema del momento. Il nostro slogan è lo stesso di “Le Un”: rallentare e riflettere, per decodificare la realtà.
Di cosa parla il numero di questa settimana, dedicato al Salone del libro?
Il numero sul Salone parla di confini, che è il tema principale della 30a edizione dell’evento. La copertina vuole significare che i confini separano anche dove non dovrebbero. All’interno il lettore troverà interventi di carattere etnico, storico, culturale, oltre che geografico e fisico. Abbiamo chiamato a scrivere molti autori importanti, non tutti presenti al Salone, tra cui Annie Ernaux e Javier Cercas. Da consigliare la lettura della graphic novel di Andrea Bozzo, un bravo disegnatore che da giovane ha lavorato alla composizione delle pagine a La Stampa e qui racconta la sua storia di trent’anni al Salone del Lingotto. L’intervista perno, invece, è a Davide Crepaldi, giovane neuroscienziato che ci parla dei confini che stanno dentro al cervello.