Il Butterfly Effect dell’Ever Given: le conseguenze della nave arenata a Suez

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La sabbia del deserto si alza più forte e il prezzo del petrolio sale, il nostro ordine su Amazon non rispetta la data di consegna e gli scali portuali saranno sovraccarichi: è un effetto domino. Un po’ come il battito d’ali della famosa farfalla della teoria del caos, l’interdipendenza dettata dalla globalizzazione porta in grembo un’incertezza endemica. “Il caso dell’Ever Given che blocca il canale di Suez ha una grande portata simbolica”, spiega Paolo Giaccaria, docente di geografia economico-politica presso l’Università di Torino. “Su quella nave viaggiavano 18.000 container, li sopra può esserci qualsiasi cosa”, destinata ovunque. Il canale è quasi libero e inizia la resa dei conti. Tempi di consegna dilatati anche per il Piemonte, come racconta il presidente di Confindustria della regione, Marco Gay. Il caso Ever Given ha accentuato il rincaro dei materiali per quei mercati che già respiravano male a causa della pandemia. “L’impatto ci sarà, e ora è difficile da contare ma sicuramente viene mostrata la fragilità del mondo globalizzato, l’idea che l’incidente restituisce è quella del cammello nella cruna d’un ago”, continua Giaccaria. Ancora incerto l’impatto sui costi di alcune materie prime che, di nuovo, potrebbero a cascata pesare sulle tasche di uomini e donne a migliaia di chilometri di distanza.

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Tutto inizia la mattina del 23 marzo, l’Ever Given entra nel canale di Suez. Parte dalla Cina per raggiungere l’Europa, ma nelle prime ore di quel martedì i venti e la tempesta di sabbia soffiano forte. La nave deraglia, si incunea saldamente su entrambe le sponde, il canale è bloccato. Assomiglia a una balena spiaggiata lunga 400 metri, quasi come l’Empire State Building. 206 navi fanno marcia indietro, nel mentre draghe, escavatori e rimorchiatori cercano di liberare il canale di Suez, lì dove circa il 30% del volume mondiale di container marittimi transita quotidianamente per abbreviare i viaggi tra Europa, costa orientale dell’America e Asia. Sono le 4.30 di lunedì 29 marzo, e la poppa dell’ Ever Given si muove di 102 metri dalla sponda, ora è quasi in posizione di navigazione. Complici la luna piena e l’alta marea: la portacontainer è disincagliata, e inizia la stima dei danni. Ancora fermo il traffico nel Canale di Suez, nell’attesa l’Egitto perde circa 13-14 milioni di dollari ogni giorno, salgono i prezzi, 367 navi, ora, aspettano sulla soglia della porta per la circolazione delle merci tra Europa e Asia, quella che fa transitare il 13% del commercio mondiale. E allora i riflettori si puntano sulla fragilità delle catene di approvvigionamento globali, si stimano i costi, si pensa per accelerare i cambiamenti dell’economia mondiale, quelli che la pandemia di Covid-19 aveva già rimarcato. “Sarà sicuramente difficile ridisegnare le geometrie del commercio internazionale, si pensi a Rotterdam, uno dei porti a cui erano destinate le merci dell’ Ever Given. Sono 40 chilometri lineari di struttura portuale, non è dall’oggi al domani che si sostituisce”, sottolinea Giaccaria.

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I progressi tecnologici legati alla digitalizzazione e all’automazione spingeranno però sempre di più per rendere i produttori indipendenti, mobili, e quindi in grado di localizzarsi più vicino ai mercati serviti. Restringere le catene di approvvigionamento globale riducendo i chilometri delle merci è una prospettiva reale. Il blocco del canale di Suez non può che accelerare questa tendenza che precede già la pandemia. La si può infatti osservare all’interno di un numero: il moltiplicatore mondiale del commercio marittimo/Pil. Un numero che misura quanto l’attività economica mondiale dipende dalla navigazione. In seguito alla crisi finanziaria globale del 2008-2009 è sceso in media al di sotto dell’1%. Un calo dovuto al rallentamento della globalizzazione e all’aumento delle barriere protezionistiche guidate dagli Stati Uniti. Il blocco potrebbe rappresentare un’ulteriore spinta per accorciare le catene di approvvigionamento, un passo avanti per economia e ambiente. Perché la merce, quella rinchiusa nei container impilati sull’ Ever Given, in realtà, poteva essere prodotta molto più vicino a dove richiesta. Un processo bulimico dove beni di consumo rimbalzano da un capo all’altro del mondo. Un ciclo dovuto ad un fattore: il costo della manodopera. Perché i salari dall’altra parte del globo sono più bassi. E così navi elefantiache solcano i mari sversando oli combustibili pesanti e idrocarburi: un giorno di viaggio dell’ Ever Given inquina come 50 milioni di automobili, tradotto in numeri il trasporto marittimo produce il 3% delle emissioni totali di origine umana. Produrre vicino a casa, pagare quindi di più, si, ma per sganciarsi da una interdipendenza che è troppo complessa e fragile. Uno dei buoni propositi scattati a inizio pandemia quando, in qualche modo, un pipistrello in Cina ha innescato il perverso meccanismo che ha messo in scacco il mondo intero: la diffusione del Covid-19.

D’altronde non è che l’ennesima colpa da scontare per quel mito del progresso che paga le manie di grandezza accumulate da più di un secolo. Il gigantesco cargo incastrato in un canale troppo stretto è la metafora che descrive bene un’economia globale che oggi sopravvive male.