“I miei ricordi non si sono affievoliti, anzi si sono fortificati”. Giuseppe Pastore, 100 anni compiuti da poco, nel settembre del 1943 venne catturato dai fascisti, torturato e condotto al carcere Le Nuove di Torino. La sua colpa era aver rubato armi al nemico da una caserma per mandarle ai partigiani sulle montagne. Ieri sera, 27 gennaio, più di ottant’anni dopo, alla partenza della fiaccolata per il Giorno della Memoria, alla stazione Porta Nuova, il partigiano ha ricordato a tutti con sua la presenza gli orrori del nazifascismo.

“Ero e sono sempre stato antifascista – dice -. Ho sofferto molto durante la prigionia, mi hanno martoriato e messo al muro”. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Pastore – originario di Levone Canavese – abbandonò la Marina e tornò a Torino, dove cominciò ad aiutare la Resistenza procurando loro le armi per combattere sulle montagne. Il 26 settembre venne però arrestato e portato nella sede del comando della Gestapo, all’Albergo Nazionale, in quella che oggi è piazza Cln. Dopo due giorni di interrogatorio, picchiato dai nazisti, venne poi portato al carcere Le Nuove. Qui, nella struttura dove venivano rinchiusi partigiani ed ebrei durante l’occupazione, Pastore rimase tre mesi, prima di venire liberato grazie all’intercessione di una sua amica, Maria, che era in confidenza con il capo delle SS a Torino. “Abitava in via Scarlatti, in Barriera – racconta Giuseppe -. L’ho vista crescere, frequentava anche il liceo Gabelli dove sono andato io. Dopo il suo intervento mi hanno liberato”.
Alla fine della cerimonia, sotto la stele che ricorda i deportati nei lager, di fronte al binario 17 da cui partivano i convogli carichi di prigionieri, Pastore si ferma a stringere mani e a rispondere alle domande dei torinesi, mentre la fiaccolata si dirige verso il carcere delle Nuove, luogo d’arrivo del corteo. “È stata una serata magnifica: è importante poter parlare”, dice. “Quello che è accaduto mi ha rovinato la salute: i fascisti, quelli vigliacchi che facevano del male come hanno fatto a me, non li posso vedere”. Per “Beppe”, come lo chiamano tutti, lo sguardo sul futuro resta la speranza: “Il mondo è bello – dice – e i giovani non sono cattivi”.

