Dati. Dati. E ancora dati. Ai primi avvisi dell’avvento del Coronavirus grafici e curve colorate hanno iniziato a moltiplicarsi sul web, popolando spesso anche le prime pagine dei giornali. Gran parte dei cittadini, in Italia ma non solo, si sono avvicinati con sempre maggiore frequenza a questo mondo di numeri, percentuali e statistiche. Spesso discutendone e riproponendoli nel mondo virtuale.
Si tratta, pur sempre, di un momento in cui la tensione e la paura stringe la comunità internazionale. Eppure a sentire Alessio Cimarelli, data scientist e co-fondatore di Dataninja – un’azienda data-driven che dal 2012 costruisce e supporta progetti per la divulgazione e la disseminazione dei dati – forse potremmo cercare di contenere la condivisione compulsiva di post, così come la voglia di esprimerci per forza.
A volte, secondo Cimarelli, può essere più utile ascoltare e leggere. Cercare di farsi un’idea e aspettare. Aspettare di capire meglio. E, sempre, portando un po’ di dubbio con sé.
Quanto sono importanti i dati in una situazione di emergenza come questa?
Molto spesso i dati su un fenomeno emergenziale che sta avvenendo in diretta possono non essere utili nel momento stesso dell’emergenza. Penso ad esempio a quando avviene un terremoto: l’urgenza è quella di salvare vite e cercare di limitare i danni anche strutturali. Sui dati, invece, ci si sofferma in un secondo momento. Tuttavia nel caso di un’emergenza sanitaria, e nello specifico di una pandemia, i numeri sono necessari. Diventa necessario seguire l’evoluzione nel tempo di questo fenomeno per quantificarlo e raccogliere più dati possibili di modo da capire come si sta evolvendo e soprattutto come le nostre azioni per contrastarlo stanno effettivamente avendo un impatto sul fenomeno stesso. Ad esempio potremmo chiederci, nel caso specifico del Coronavirus, se le misure prese dai vari governi stanno mitigando la diffusione del virus. Per rispondere a questa domanda dobbiamo affidarci al metodo scientifico che richiede una misura del fenomeno, una sua quantificazione.
Quali sono le difficoltà nell’analizzare tipi di dati diversi che trattano un argomento così delicato? Con quale approccio bisogna proporli e studiarli?
Noi non stiamo studiando la peste del ‘600 attraverso la lettura degli annali dell’epoca. Tutt’altro. Oggi ciò che analizziamo può portarci a fare delle azioni che a loro volta possono influire sul fenomeno stesso. Non siamo solo osservatori ma anche attori nella dinamica dell’emergenza che stiamo studiando. In una situazione come quella attuale dobbiamo riflettere ancora di più sul modo di comunicare i dati. E questo perché quei dati si riferiscono a persone che si ammalano, soffrono e muoiono. Quindi è indispensabile una grande sensibilità sia nell’analizzare i dati sia nel comunicarli in modo appropriato anche in momento in cui quegli stessi dati non sono certi. D’altra parte non disponiamo di strumenti analisi perfetti. Per questo la comunicazione deve essere consapevole di avere a che fare con l’incertezza.
Cosa significa comunicare l’incertezza?
Comunicare l’incertezza è una delle grandi sfide di questi anni. Una sfida che non può essere ignorata. Al contrario, bisogna studiare per far capire al pubblico cosa sta succedendo. Ma anche cosa non sta succedendo e cosa si pensa che stia succedendo. Questo, ovviamente, con tutte le precauzioni e i dubbi del caso. Se ciò che comunichiamo produce delle azioni, anche collettive, queste azioni possono a loro volta influenzare il fenomeno di cui parliamo. Per questo comunicare l’incertezza oggi è una questione ancora più delicata.
Quali sono le difficoltà nell’analizzare tipi di dati diversi su questa emergenza e che trattano un argomento così delicato? Con quale approccio bisogna proporli e studiarli?
Quando vediamo dei dati è bene ricordare che a loro è sempre associata una definizione. Quindi dobbiamo stare attenti a come vengono raccolti, qual è il processo di misura che porta a quel numero che ci viene proposto. Queste sono domande fondamentali soprattutto quando osserviamo dati e comportamenti che non ci aspettavamo. Ciò che deve importarci davvero, più che il dato in sé, è l’interpretazione che diamo a quel dato. Ovvero ciò che quel dato rappresenta. E, in molti casi, non è scontato.
Davanti a dei dati quali sono gli errori da non fare?
Innanzitutto non dare niente per scontato. Dobbiamo sempre prestare attenzione a come quei dati sono stati raccolti, come sono definiti, a come è definito il processo di misura che ha portato a quei numeri. Pensiamo all’esempio dei contagiati, un tema oggi molto importante. Quando, alle 18 di ogni giorno, ci dicono che i contagiati sono ‘tot’ e che quindi il numero complessivo di contagiati sta aumentando, noi dobbiamo chiederci quale processo di misura ha portato a quel risultato. Se ci facciamo questa domanda, ad esempio, scopriamo che quel numero dipende fortemente da quanti tamponi facciamo, da quanto il sistema sanitario è in grado di testare la presenza del virus nei pazienti con cui entra in contatto. Quando si parla di numero di contagiati, bisogna considerare che quel numero non si riferisce alla quantità effettiva di contagiati in quel momento. Ma, semplicemente, il numero di contagiati che sono stati misurati. Non è un caso se uno dei temi all’ordine del giorno è che in Italia il numero dei contagiati è sicuramente sottostimato. Proprio per questo l’errore da non fare è prendere la definizione di un numero, quindi di un dato, in maniera acritica dandogli un significato intuitivo. Non c’è nulla di intuitivo, anzi bisogna andare a capire bene i limiti di quella misura. Limiti che a volte possono essere accettabili, quindi possono permettere di descrivere sufficientemente bene il fenomeno analizzato, ma altre volte no. In ogni caso, è importante sottolineare che qualsiasi errore causato da una cattiva interpretazione del dato originale può ripercuotersi, e quindi inficiare, l’analisi successiva. Si tratta di una reazione a catena.
Che tipo di contributo può portare un approccio numerico alla trattazione di una storia molto “emotiva”?
Quando raccontiamo storie delicate come quelle legate a questa emergenza sanitaria sta a noi comunicatori decidere che taglio dargli. Nulla vieta, ad esempio, di costruire una narrazione che mescoli elementi quantitativi con elementi qualitativi o emozionali. I dati permettono di dare il contesto, permettono di contestualizzare la storia narrata. E qualunque storia di qualunque tipo ha senso se inserita in un contesto. Altrimenti rischi di essere inefficace.
Quale ruolo possono avere i media nel raccontare i dati?
Oggi i media tradizionali e non – come le piattaforme di social networking e i siti- rivestono più ruoli. Però, centrale e fondamentale rimane la loro capacità di accentrare la comunicazione di massa. Si tratta di un ruolo che implica per i media fornire un’informazione equilibrata per fare comprendere al pubblico la complessità e l’incertezza attuali. Altro impegno necessario è quello di verificare per fare le domande giuste a chi prende le decisioni. Insomma essere un bravo cane da guardia. I siti e le piattaforme social possono invece aiutare a mitigare le fake news, cioè la condivisione di informazioni sostanzialmente non corrette. Ciò in cui devono impegnarsi è indirizzare la curiosità del pubblico verso le risposte ufficiali, verso i siti istituzionali. Penso ai banner di Facebook che rimandano i navigatori virtuali ai siti istituzionali italiani per mantenersi aggiornati sull’epidemia. Oppure a Google che suggerisce ai propri utenti i portali ufficiali nel momento in cui effettuano ricerche web sul virus.
Come si stanno comportando i media?
Ci sono forti discussioni in merito. Ciò che da diversi mesi sta accadendo a livello nazionale e internazionale sarà oggetto di studio per molti anni a venire. Per una valutazione puntuale io aspetterei la fine dell’emergenza. Poi potremo fare un’analisi a ritroso e dare dei giudizi sull’efficacia, cioè se ha funzionato o meno una comunicazione di un tipo piuttosto che di un altro.
Infine un suggerimento. Come possiamo capire quali dati sono corretti? Siamo sempre in grado di leggerli e interpretarli?
Basta non fidarsi mai. L’unica via è non dare per scontato nulla. Al contrario, bisogna farsi le domande che si farebbe chi ha il dubbio nell’animo, del tipo: ‘Perché mi stai dicendo questo?’. ‘Come sei arrivato a questa conclusione?’. ‘In che contesto mi stai fornendo questa informazione?’. E, infine, ‘come mi dimostri che questa affermazione è vera o meno?’. Un’altra buona pratica è quella di sentire più campane. Affidarsi a più fonti, anche molto lontane tra di loro. Magari ascoltare con attenzione, pur non dando per scontato nulla, gli esperti così come le istituzioni preposte a studiare e affrontare questo tipo di emergenza. Però sempre, sempre, con un minimo di dubbio al seguito. Infine, è importante essere sempre pronti a cambiare idea. O, se non altro, a rimetterla in discussione. A maggior ragione oggi che ci ritroviamo, anche a livello di dati, in una situazione di massima incertezza.