La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

I 78 anni di Francesco Guccini in cinque canzoni che non conoscete

condividi

Francesco Guccini compie oggi 78 anni. E con lui festeggiano anche i 16 album in studio, i concerti, i romanzi. E anche una certa immagine di lui come comunista, anarchico, cantante di sinistra, pugni alzati ai concerti. Immagine che è sbagliata, o comunque non completamente vera. Francesco Guccini si descrive come un “contastorie”, il termine emiliano usato per gli artisti di strada dei tempi andati che “facevano treppo”, cioè attiravano la gente agli angoli delle strade. Così Guccini ha iniziato, nelle osterie. E così ha concluso, con l’album uscito quest’anno. L’Ostaria delle Dame, appunto.

Nel giorno del suo compleanno, cinque canzoni per riscoprire un Guccini più autentico, meno stereotipato.

 

100, PENNSYLVANIA AVE

La storia è semplice e vera: Guccini si innamora di Eloise Vitelli, una ragazza americana che studiava in Italia. Quando lei torna a casa, lui la segue per una vacanza ospite dei genitori di lei. Era l’ottobre 1970. Francesco è ancora innamorato di quell’America che era “Life, sorrisi e denti bianchi su patinata”, l’America di Paperino e della gomma da masticare dei soldati di stanza sull’Appennino durante la Seconda guerra mondiale. Quel viaggio manda in fumo le sue speranze e le sue certezze: si ritrova a casa di “due americani sicuri e sani, un poco alla John Wayne” impegnati a
“portare avanti i miti kennedyani e far scuola agli indiani”. L’America è bigotta, è schiava. Guccini litiga coi genitori di lei e se ne va.

 

Non voglio far felice proprio adesso tua madre che odiò l’ italiano istrione
quando disse a tuo padre che era un fesso lui e il liberal-progresso
e urlò “rivoluzione!”.

 

Il mito dell’America si inabissa, fino a Canzone per Silvia. Con astio e asprezza, Francesco Guccini si lancia in un’invettiva contro uno Stato che imprigiona una donna innocente, Silvia Baraldini.

 

ADDIO

Intro di Stagioni, il quattordicesimo album in studio di Guccini, Addio è una sorta di L’Avvelenata parte seconda. Una canzone amara e rancorosa che il cantautore non ha mai ritrattato. Rispetto alla più famosa è più matura, meno personale e meno graffiante. È anche meno poetica di Nostra signora dell’ipocrisia, di cui ricalca il tema della futilità del presente televisivo. Tutto l’album parla dello scorrere del tempo con una malinconia che manca però in Addio, che invece riflette con rabbia sul tempo presente e le sue debolezze:

 

Io dico addio a tutte le vostre cazzate infinite,
riflettori e paillettes delle televisioni,
alle urla scomposte di politicanti professionisti,
a quelle vostre glorie vuote da coglioni

 

VAN LOON

Van Loon è una canzone da ascoltare con calma, in silenzio, e lasciarsene avvolgere. Parla del padre di Francesco, Ferruccio Guccini, ma anche dei papà di tutti. Della loro umanità, finitezza e mortalità. La reazione più comune, a canzone conclusa, è un pugno allo stomaco: anche mio padre prima o poi morirà. “Una canzone molto intensa che ho provato più volte a inserire nella scaletta dei miei concerti” racconta Guccini a Massimo Cotto “La provo e poi sono costretto a rimetterla via. Non riesco a farla senza star male e piangere, perché, nel frattempo, mio padre è morto”. In un’intervista a Repubblica, Guccini ha raccontato di quel suo padre partito per la guerra tedesca: io l’ho identificato con quella generazione che da giovane pensi fatta di perdenti. Ma crescendo ti accorgi che tuo padre non era un perdente, era semplicemente uno costretto a vivere così. Da giovani si pensa che mai si scenderà a compromessi, che nessuno potrà costringerci. Col tempo si cambia idea”

 

Van Loon viveva e io lo credevo morto
o, peggio, inutile, solo per la distanza
fra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d’allora,
la mia ignoranza:
che ne sapevo quanto avesse navigato
con il coraggio di un Caboto fra le schiume
di ogni suo giorno e che uno squalo è diventato,
giorno per giorno, pesce di fiume…

 

CANZONE DELLA COLOMBA E DEL FIORE

Una delle poche canzoni puramente d’amore di Francesco Guccini, insieme a Vorrei. Parte dello stesso album, D’amore di morte e d’altre sciocchezze, sono dedicate alla nuova compagna Raffaella. Se in Eskimo si parla dell’evoluzione di un amore nella Bologna degli anni Sessanta e in Farewell l’amore finisce, Canzone della colomba e del fiore è un inno puro all’amore, alla bellezza e alla sensualità. La canzone è piena di dolci e sottili riferimenti al sesso:

Amore, pensa s’io avessi una torre colombaria
per far posare le tue due colombe stanche di volare in aria,

vederle alzarsi dritte nel cielo e atterrare fra le mie mani
per carezzarle dentro ai miei oggi e baciarle fino a domani

 

 

IL PENSIONATO

Francesco Guccini non parla di eroi, mai. Anche quelli che comunemente sono interpretati come figure eroiche, nei suoi versi assumono tonalità molto umane: come il Cristoforo Colombo della canzone omonima, teso tra la voglia di esplorare e il desiderio di trovare una casa. Insieme a Il Frate, che racconta di un religioso ubriacone realmente esistito nella Pavana di Guccini, Il Pensionato è l’archetipo dell’antieroe gucciniano. È il vicino di casa di Guccini a Bologna, si sveglia quando il cantautore torna a casa la mattina, e vive una vita abitudinaria di cui ci si rende conto solo quando finisce. L’uomo ha un nome e un cognome: Paolo Mignani, fa il calzolaio. E’ stato lui a raccontare a Guccini del macchinista Pietro Rigosi, il protagonista de La Locomotiva. Dal racconto delle giornate di lui la canzone apre gli orizzonti, ed è quasi possibile vedere Guccini che fuma una sigaretta e pensa al tempo che passa, alla storia che si evolve, agli uomini che l’hanno vissuta ma non ne hanno fatto parte

Io ascolto e i miei pensieri corron dietro alla sua vita,
a tutti i volti visti dalla lampadina antica,
a quell’ odore solito di polvere e di muffa,
a tutte le minestre riscaldate sulla stufa,
a quel tic-tac di sveglia che enfatizza ogni secondo,
a come da quel posto si può mai vedere il mondo,
a un’esistenza andata in tanti giorni uguali e duri,
a come anche la storia sia passata fra quei muri

 

 

MARTINA PAGANI