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Hiv, miti e fake-news. Ma con Prep e antiretrovirali, il virus si può (ab)battere

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Quella dell’untore è una leggenda difficile da estirpare: per anni Gaëtan Dugas, lo steward canadese morto il 30 marzo del 1984, è stato considerato a torto il primo paziente affetto dall’Hiv e accusato di aver diffuso il virus nel nord America. Ma la storia di Dugas come “paziente zero” è un mito: il primo episodio di positività risale infatti al 1959. Quell’anno, da un uomo di origine congolese venne prelevato un campione di sangue che analizzato trent’anni dopo ha svelato il primo caso di infezione.
Gli anni ‘80 furono comunque quelli della grande paura negli Stati Uniti. Polmoniti e sarcomi di Kaposi, due malattie che colpiscono in modo particolare i soggetti con sistema immunitario indebolito, cominciarono a diffondersi soprattutto nelle comunità di giovani omosessuali. New York, San Francisco, Los Angeles: nei principali centri statunitensi il 1981 rappresentò un punto di svolta, con un vertiginoso aumento nel numero di casi, molti dei quali rapidamente mortali. Per tutti, quella malattia misteriosa era il ‘cancro dei gay’: a essere colpiti erano infatti proprio i giovani omosessuali. Ci sarebbero voluti ancora alcuni mesi per capire la vera origine della malattia, quella che nell’agosto del 1982 il biologo statunitense Bruce Voeller definì Sindrome di immunodeficienza acquisita. La svolta arrivò tra 1982 e 1984. Bethesda, Maryland: nel National Cancer Institute Robert Gallo, il direttore del laboratorio di biologia cellulare dei tumori scopre l’origine virale della malattia. È il primo passo verso l’identificazione del virus dell’Hiv, che avviene a novembre ‘83 a Parigi, nell’Europa che nel frattempo ha vissuto le prime paure e i primi casi. In Italia, ad esempio, tra 1982 e 1984 ne furono registrati 23.

Le nuove frontiere della cura

“Dal 2010, nei paesi sviluppati c’è riduzione di nuove infezioni del 9%. È probabile che questo dato dipenda anche da un nuovo meccanismo di prevenzione chiamato PrEP, la profilassi pre-esposizione. Si tratta di un farmaco anti retrovirale che viene somministrato alle persone che non hanno il virus ma sono a rischio di contagio”. Parola di Peter Ghys, direttore di Unaids, il programma delle Nazioni Unite contro la malattia, in un’intervista a Rsi lo scorso 23 luglio. È una pastiglia da assumere per via orale e che protegge per 24 ore.
Anche le cure per chi ha già contratto l’Hiv hanno raggiunto livelli tali da consentire il sesso senza preservativo: “È improbabile che chi segue una cura efficace possa trasmettere il virus al partner, perché la carica virale viene fortemente abbassata”. Le accortezze, tuttavia, non sono mai troppe. “Interrompere anche solo per un breve periodo le cure può rialzare la carica provocando l’infezione, e c’è anche il rischio di resistenza alle cure”.
Non solo sesso, però: i trattamenti per i sieropositivi sono in grado anche di abbattere la carica virale trasmissibile da madre a figlio. “Grazie ai nuovi trattamenti la possibilità di contagiare il nascituro è scesa fino all’1%, una percentuale che alcuni anni era al 25-30%”, chiarisce Ghys.

MARCO GRITTI

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