La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Mannocchi: siamo in grado di cambiare idea?

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La guerra è dubbio. I grandi eventi a cui stiamo assistendo dovrebbero farci porre dei quesiti: perché è scoppiata una guerra? cosa possiamo fare di diverso e come la possiamo raccontare? Il libro “Lo sguardo oltre il confine” di Francesca Mannocchi, ospite al Salone del Libro di Torino, vuole esprimere proprio questo concetto. È pensato per i ragazzi: proprio loro hanno ricordato alla reporter di guerra quanto sia stimolante non aver paura di cambiare idea, una qualità che hanno solo bambini e ragazzi. “Parlare con loro – dice l’autrice – è come tendere un elastico, nella purezza delle loro domande e nella loro capacità di ascolto. Ricordare loro che la guerra è dubbio significa ricordarlo a noi”. E le parole sono l’unico strumento per portare il dubbio.

Nel lavoro di Mannocchi è costante la sensibilità alla precisione della parola ma anche la consapevolezza dell’impossibilità di trovare sempre quella giusta. La parola c’entra sempre in una guerra: in questo momento in Ucraina stanno combattendo persone che parlano la stessa lingua. Vicini di casa che vengono di colpo separati dal conflitto: la guerra scoperchia differenze che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente. Nel raccontare questi episodi, fondamentale per Mannocchi è lo strumento della poesia, che possiede l’esattezza della sintesi. La poetessa Ingeborg Bachmann diceva: “La guerra non è cominciata, è proseguita”. Un aspetto chiaro in Ucraina, dove il conflitto non è iniziato il 20 febbraio 2022 ma ben prima. E i dopoguerra sono continuazioni a basso profilo delle guerre. Secondo Bruno Munari, scrittore del Novecento: “Quello che non si può dire in poche parole non si può dire neanche in molte”. Perché sintesi non significa semplificazione.

Gli altri conflitti sono considerati lontani perché sembrano lontani, sembra che non ci riguardino. Invece Mannocchi crede che ognuno di noi debba imparare qualcosa dai Paesi in via di sviluppo. Ad esempio in Bangladesh, a causa dello sfollamento climatico, hanno inventato delle città satellite, adattando il loro stile di vita. Questa vita ci chiede un cambiamento radicale delle nostre abitudini. Le persone in movimento aumenteranno sempre di più, magari anche noi dovremo trasferirci: saremo in grado di vedere chi arriva come una risorsa e non come un pericolo? Le persone migranti non hanno solo bisogno di qualcosa ma ci dicono anche cosa possono dare a noi, vogliono riavere la loro reputazione. “Finché non faremo un capovolgimento del paradigma non accetteremo mai questo nomadismo di cui abbiamo bisogno”, dice la giornalista, che riserva però qualche speranza per il futuro. “Questo continente così terrorizzato da tutto è anche il continente che ha saputo accogliere sette milioni di persone in un anno di guerra in Ucraina”. Grazie alla prossimità geografica, all’urgenza ma anche alla prossimità del colore della pelle. “Però ormai – dice Mannocchi – l’Europa ha dimostrato di poterlo fare, di avere gli strumenti, in barba al trattato di Dublino. Questo continente può mostrare le sue qualità e può rispettare i principi per cui è nato”.

Le persone che raccontano meglio una guerra sono i civili, i testimoni, ma intercettare la spontaneità oggi è molto più difficile: si sono abituati a una nuova normalità, quella della guerra, e questo offusca il racconto, secondo la giornalista. La parola dei sopravvissuti ha perso valore, un fatto preoccupante perché la loro testimonianza serve a scuotere le coscienze. “La nostra missione si basa sul confine tra posare la videocamera e aiutare le persone e invece tenere accesa la videocamera per raccontare. Io scelgo la seconda”.