La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Guerra a Gaza: una narrazione iniqua

Il conflitto scoppiato lo scorso 7 ottobre, che ha interessato la zona della striscia di Gaza, ha cambiato profondamente le dinamiche del giornalismo. “Penso che sia stato immediatamente chiaro a tutti noi che ciò che è accaduto dopo il 7 ottobre ha segnato un capitolo completamente nuovo nella storia del Medio Oriente, e direi anche nella storia del mondo, è un bivio. E i politici, sicuramente nel mondo occidentale, hanno perso ogni autorità morale”, ha commentato Michael Jensen dell’International Media Support. Il conflitto israelo-palestinese ha radici molto più profonde e antiche, ma a partire dall’anno scorso è diventato una questione di rilevanza mondiale. Alia Ibrahim, cofondatrice e Ceo di Daraj Media, ha parlato della necessità di modificare la strategia editoriale e di avere una linea ben precisa: da un lato, il sostegno alla causa palestinese e la volontà di spiegare che il conflitto non è scoppiato da un momento all’altro, dall’altro lato la necessità di una narrazione critica in merito ai crimini di guerra perpetrati dallo scorso 7 ottobre fino a oggi. “Nessun giornalista poteva entrare a Gaza – ha spiegato Ibrahim –. Abbiamo fatto indagini su ciò che stava accadendo al confine e anche sui mercati neri all’interno. I nostri scrittori analizzano la situazione da una prospettiva palestinese. Abbiamo dato loro più spazio e abbiamo tradotto il loro lavoro”.

I pochi giornalisti presenti sul campo infatti sono diventati loro stessi dei bersagli: “Ci sono più di 100 giornalisti che sono stati massacrati dall’esercito israeliano. Questi giornalisti hanno fornito immagini a tutte le nostre redazioni. Sta avvenendo una pulizia etnica in un blackout mediatico, senza giornalisti sul campo”, ha commentato Jean Kassir, co-fondatore e direttore di Megaphone. “La massima priorità editoriale era quella di correggere lo squilibrio strutturale che esiste nell’ecosistema mediatico globale quando si tratta della Palestina – ha proseguito Kassir –. Si deve bilanciare l’asimmetria dell’ecosistema mediatico globale che esiste da 73 anni e che ha portato alla disumanizzazione di un’intera popolazione. E questo ha fatto sì che l’uccisione delle persone non fosse una notizia dell’ultima ora, ma solo un’altra notizia. Questo ha portato i media occidentali ad aspettare 10mila morti per iniziare a pensare di mettere in discussione il governo fascista in Israele”.

E anche Lina Attalah, cofondatrice e direttrice di Mada Masr, evidenzia la copertura mediatica solo di determinati aspetti del conflitto. Il 2020 in Cisgiordania è l’anno in cui sono morti più bambini palestinesi. “Ma non c’è Hamas in Cisgiordania, quindi questo non ha fatto notizia sul New York Times, sul Guardian o su altri mezzi tradizionali”. E anche la terminologia usata dai giornali influenza il tipo di narrazione del conflitto. “Spesso si legge che ‘100 palestinesi sono morti’. Ma non sono morti, sono stati uccisi. Le voci all’interno dei tradizionali media internazionali che hanno cercato di andare contro il quadro generale, sono state licenziate, hanno dovuto scusarsi o sono state messe sotto inchiesta”, ha concluso Attalah.

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