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Sorelle senza paura

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Alla fine siamo gazzelle. Scappiamo. Oppure rimaniamo lì, inchiodate alla situazione di pericolo che stiamo vivendo. Paralizzate dal nostro essere animali, mammiferi, primati, senza neppure capire se quello che ci sta accendo sta succedendo davvero. A spiegare i meccanismi di autodifesa che scattano nel cervello umano nelle situazioni di pericolo e violenza è la psicologa Silvia Sandri, volontaria del Telefono Rosa. Queste dinamiche le ha viste accadere centinaia di volte. E – intervenendo sul tema del consenso in un convegno organizzato dall’Università di Torino – descrive così il fenomeno del freezing, la reazione passiva che accompagna moltissimi episodi di violenza sessuale e che, nella percezione complessiva, contribuisce a colpevolizzare la vittima e scagionare il carnefice. Una reazione da mammiferi, per l’appunto.

Mi disturba un po’, essere gazzella. Ma cosa sono, cosa siamo in strada, quando è buio, siamo sole e abbiamo paura? Cosa sono state Giulia Cecchettin e Teresa Di Tondo, Margherita Ceschin e Svetlana Ghenciu e tutte le 106 donne vittime di femminicidio in questo 2023, se non animali, gazzelle ferite, uccise e abbandonate, quasi sempre tra le quattro mura di una casa in cui avrebbero dovuto essere al sicuro? 

Superare il victim blaming

“Quando il pericolo sembra insormontabile si rimane paralizzate”, spiega Sandri. Una cosa che nell’immediato aiuta anche la donna a sentirsi padrona di se stessa. “Credere di essere corresponsabili della violenza subita contribuisce a mantenere una certa percezione di controllo”. Se ho fatto qualcosa che non va, pensa la maggior parte delle donne, allora potrò correggere il mio comportamento. Farò in modo che non succeda più. “Ma non è così – continua la psicologa – Non ci si può colpevolizzare per non aver fatto abbastanza, per non essersi opposte a sufficienza. Dobbiamo uscire dalla narrazione del victim blaming, cioè della colpevolizzazione di una vittima che avrebbe potuto fare di più, troppo spesso alimentata anche dai media e dalla percezione diffusa”. 

Il senso di colpa di Cecilia 

Cecilia (nome di fantasia) si è rivolta al Telefono Rosa grazie al papà. Le forze dell’Ordine l’hanno contattata dopo aver fermato per spaccio un uomo che, tempo prima, l’aveva indotta ad assumere sostanze per poi avere rapporti con lei. Durante l’indagine, è emerso che l’uomo non denunciava alle partner la propria sieropositività. All’epoca lei era minorenne, lui aveva più di trent’anni. Eppure Cecilia non voleva denunciare. “Se succedeva qualcosa che non andava nelle relazioni – è la sua testimonianza – pensavo che fosse colpa mia. Anche dopo la denuncia quasi mi dispiaceva per lui“. Più forti del senso di colpa, però, Cecilia ha sentito i segnali del corpo. Nel pianto, sul momento, quando è esplosa dentro di lei la sensazione che quella cosa non sarebbe dovuta succedere. E poi nei mesi successivi: “Ripensavo al tutto e andavo nel panico. Mi sentivo io qui e il vuoto attorno. Per controllare l’ansia, a volte smettevo di respirare”. 

Maria, rimasta per essere moglie

Sono tante, tantissime, le donne come Maria (nome di fantasia), che si rivolgono ai centri antiviolenza quando i figli diventano adulti e lasciano la casa. Madri e mogli che hanno vissuto per anni in contesti di violenza ormai normalizzata. Situazioni in cui la questione del consenso diventa più scivolosa e la donna, forse, è ancor più sola. Le storie di Maria e le altre sono tutte diverse, ma si somigliano tutte un po’. Parlano dei figli da proteggere nella stanza accanto, parlano di consenso dato per evitare la violenza fisica. Parlano di ricatto e di concessioni che a sentirle fanno venire i brividi. “Quando succedeva – spiega Tatiana (nome di fantasia) – mio marito era più calmo. A volte mi permetteva anche di andare a trovare mia sorella”.

Servono occhiali nuovi

Dalle voci diversissime delle tante donne che si rivolgono al Telefono Rosa, Silvia Sandri ha tratto nuovi spunti di riflessione. È davvero sufficiente dire che la violenza sia sesso senza consenso? 

“Personalmente non credo”, commenta. In primis perché non tiene conto di ciò che Cecilia, Maria e le altre hanno descritto e provato sulla propria pelle, dal freezing al contesto di violenza normalizzata. “Aspetti che le donne stesse fanno fatica a comprendere, ma di cui dobbiamo tener conto. È come se dovessimo indossare degli occhiali che ci permettano di vedere che anche questa è violenza”. E poi c’è un ultimo tema. “Un ragazzo seguito di notte – chiude Sandri – di solito può aver paura di un furto. Noi anche di altro. Se teniamo conto del timore, c’è un intero genere che è vittima indiretta di questa cultura. Concentrarsi esclusivamente sul tema del consenso, invece, porta a considerare i singoli episodi come una violenza individuale, anziché riconoscerne la matrice sociale e generale“. Come se fossimo tutte sole. Giulia. Svetlana. Teresa. Margherita. Episodi isolati e non figli della stessa cultura. E invece no, siamo tutte insieme, sorelle sin miedo. E vogliamo degli occhiali nuovi.

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