“Italiani e slavi hanno sempre avuto ottimi rapporti tra loro, ma la guerra ha rovinato tutto. La colpa di quanto è successo è dei partigiani di Tito, ma non va dimenticato chi gli ha dichiarato guerra per primo.” La testimonianza di Antonio Vatta, presidente della sezione torinese dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (AnVGD), mette un punto fermo su una polemica che non manca di riaccendersi ogni anno attorno al 10 febbraio. Anche se spesso dimenticata questa data è infatti il “Giorno del ricordo” delle vittime italiane uccise nelle foibe o forzate all’esilio.

La storia
Migliaia di cittadini e cittadine italiane sono morte tra il 1943 e il 1945, mentre molte di più sono stati strappati alle proprie terre, tra cui Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, nel confine orientale della Penisola, ad opera dei partigiani jugoslavi. La tensione in quell’area di confine è nata a partire dalle politiche di assimilazione culturale, intraprese dopo la I guerra mondiale dai governi italiani, in particolare quello fascista, spesso con l’uso della violenza per italianizzare i popoli e negare la loro appartenenza a culture estranee.
Nel corso della II guerra mondiale, la tensione tra i due popoli sfociò in violenze efferate da ambo le parti, fino alle resa dell’Italia nel 1943, che ebbe l’effetto di rinvigorire la resistenza slava, che si impose sulla componente italica. Da quel momento in poi si procedette con un vero e proprio regolamento di conti, che vide processati sommariamente e condannati centinaia di collaboratori del regime fascista.
Nel medesimo periodo e area geografica, ma in un differente contesto ci furono altre uccisioni commemorate nel Giorno del ricordo. Nelle ultime fasi della Seconda guerra mondiale Tito si spinse con il suo esercito fino a Trieste e operò circa 10mila arresti nei confronti di ex dirigenti fascisti, collaborazionisti o presunti tali. Circa mille di questi furono uccisi e gettati nelle foibe – cavità naturali molto profonde tipiche dei territori al confine tra Italia, Slovenia e Croazia -, mentre altri vennero deportati e uccisi nei campi di prigionia. In questa fase le vittime furono tra le 3mila e le 4mila.
La testimonianza
Il 10 febbraio al cimitero monumentale di Torino si è tenuta la cerimonia di commemorazione per il Giorno del ricordo, nella quale hanno presenziato e parlato figure istituzionali quali Davide Nicco, presidente del consiglio regionale del Piemonte, Michela Favaro, vicesindaca di Torino, Gianluca Vignale, assessore regionale. Molto toccante è stata soprattutto la testimonianza di Antonio Vatta, lui stesso sopravvissuto allo sterminio delle foibe.
“Noi siamo sempre vissuti a Zara – racconta Vatta – fin dai nostri avi, che stavano sotto la Repubblica di Venezia. Nel corso della storia le popolazioni che hanno vissuto in quell’area si sono succedute e mescolate. A molti prima di noi è capitato di doversi spostare da lì, così come a noi, che ci siamo trovati in un momento molto brutto della storia. I rapporti tra noi e gli slavi erano ottimi prima della guerra. Nel sangue della maggior parte di noi c’era sangue slavo: a casa infatti parlavamo sia italiano che croato. Io avevo 10 anni quando siamo dovuti andare via da Zara, era il 30 ottobre del 1944.
Perché è importante ricordare? Perché è una tragedia italiana, non era mai successo uno sterminio del genere alla nostra nazione, al di fuori dei bombardamenti. È importante conoscerne la storia, cos’è successo, come mai e che rapporto c’era tra noi e gli slavi. Chi compie atti vandalici dovrebbe imparare avere rispetto (riferimento alla vandalizzazione della targa in corso Cincinnati ndr). Stanno infangando la memoria dei partigiani che hanno combattuto per liberare l’Italia e di chi è morto in quella circostanza. Noi non accettiamo provocazioni, non ci fanno paura quelle cose, abbiamo già provato di peggio”.