“Credo nella libertà di espressione, cioè giornali e televisioni liberi di criticare il potere” diceva Enzo Biagi. Troppo spesso, però, giornalismo e potere hanno camminato a braccetto. Come sa bene Raffaele Fiengo, storico giornalista e combattivo rappresentante sindacale del Corriere della Sera che, per anni, si è battuto per l’indipendenza della stampa e dei giornalisti.
Chiamato dai suoi antagonisti “il soviet di via Solferino”, è stato per vent’anni nel comitato di redazione. Nel 1973 fonda la società dei redattori del Corriere della Sera e nel 2004 è tra i promotori di “Libertà di stampa, diritto di informazione” (Lsdi), il centro di ricerca sulle trasformazioni del giornalismo. Nel 2012, poi, sostiene presso la Federazione nazionale della stampa italiana, l’iniziativa per l’adozione in Italia di un Freedom of Information Act.
Venerdì 22, presso il Circolo Filologico di Milano, durante l’incontro “Il Corriere della Sera, dalla fondazione a oggi: libertà di stampa e democrazia”, ha parlato dei grandi temi che hanno costellato la sua vita da giornalista, da ricercatore e da professore. L’indipendenza e la libertà di stampa sono ancora questioni fondamentali per il mondo del giornalismo che, nell’era contemporanea, strizza l’occhio al potere incontrastato della pubblicità.
Il Corriere della Sera ha una storia secolare, ma qual è il suo futuro?
Il Corriere della Sera ha una storia contradditoria. La spinta del giornalismo e di alcuni grandi personaggi di peso come Albertini o Einaudi è sempre stata verso un giornale indipendente, sul modello dei grandi giornali internazionali. Dall’altra parte, talvolta la struttura proprietaria è scesa molto in basso, come durante l’occupazione occulta della P2. Anche in quegli anni, però, i giornalisti hanno opposto resistenza.
Adesso, a mio avviso, la situazione è più complessa: come altri grandi media, il Corriere ha più difficoltà a svolgere la propria funzione giornalistica. La tendenza a cadere nei meccanismi negativi della rete, realtà per altri versi molto positiva, è pericolosa. Ci vuole una visione più ampia della realtà e della società.
Il giornalismo online è governato dalla pubblicità. In questo contesto, è possibile un giornalismo libero e trasparente?
Nell’impresa giornalistica, paradossalmente, il giornalismo non è un fattore di produzione primario. La pubblicità, il marketing e i social network pesano moltissimo. Io non dico che la commistione tra notizia e pubblicità vada eliminata, ma bisogna mantenere alta la consapevolezza di ciò che è giornalismo e di ciò che non lo è. Purtroppo, però, nella necessità di fare il bilancio, le imprese tendono a ribaltare la scala di importanza. Questo è il rischio maggiore per il giornalismo di qualità.
La rete è un’occasione fantastica e irripetibile però, contemporaneamente, è un campo che si presta a un livello di manipolazione altissimo. Il Corriere della Sera vende un milione di copie al mese, mentre sul suo account Instagram arriva a nove milioni di contatti mensili. Questo rapporto, se non si sta attenti, può essere molto pericoloso. Se lo scopo principale è la pubblicità, agganciata a notizie vere o false che, semplicemente, diffondono un sentimento, si formerà un’opinione pubblica distorta.
Ora come ora, però, la gente non sembra disposta a pagare per poter leggere il giornale. Come si affronta questo problema?
Le imprese giornalistiche devono saperlo e muoversi lentamente di conseguenza. Il valore delle informazioni è dato dall’effettiva rispondenza della comunità. Se il giornale fa l’interesse reale della comunità, l’aspetto del pagamento poi diventa fisiologico come si sta vedendo in tutto il mondo.
Quali capacità e qualità deve sviluppare il giornalista del futuro?
La ricerca della verità, sempre. Sembra banale, ma è uno degli elementi portanti. E poi l’onestà del mezzo. Non si pubblica una notizia sponsorizzata senza dirlo, si controlla e si comunica sempre la fonte eccetera; quelle quattro cose che sono alla base di un riconoscimento professionale.
È inutile dire che non ci devono essere i rapporti con la pubblicità. Non è vero! Si possono anche fare servizi giornalistici a pagamento molto belli, ma dentro ci vuole il giornalista! È come un medico che lavora in una clinica privata: non può squartare le persone per far guadagnare la clinica.
Ci vuole trasparenza e onestà di posizionamento. Altrimenti la funzione giornalistica viene meno, diventa un altro lavoro. Io sono molto fiducioso nei giovani giornalisti.
Cosa pensa dell’Ordine dei giornalisti?
Da ragazzo ero contrario. Ma l’Ordine è necessario: perché se non c’è la formazione corretta dell’opinione pubblica, e il giornalismo ne è parte essenziale, la democrazia stenta ad esistere.
L’Ordine si sta ponendo delle questioni, come per esempio quella di aprire ai comunicatori, per creare uniformità anche normativa, ma nella categoria, appena si fanno discorsi così, tende a prevalere una chiusura corporativa. Chi si oppone sostiene che si vuole riconoscere come giornalisti persone che non lo sono, ma non è così. Si tratta di prendere atto di una pluralità. Negli Stati Uniti utilizzano un parallelismo botanico, dicono: noi non possiamo più contare solo sui grandi alberi, dobbiamo anche andare a vedere quel giornalismo poco strutturato e rapportarci ad esso.
In che modo, invece, il giornalismo deve relazionarsi con il potere?
I governi, per natura, non gradiscono la funzione effettiva del giornalismo. Persino Obama aveva un atteggiamento non del tutto in sintonia con il giornalismo. Poi c’è anche chi i giornalisti li uccide o li mette in carcere. I governi sono spesso su questa linea, quasi sempre. Ma il giornalismo deve mantenersi separato e deve essere orgoglioso di svolgere una funzione diversa, non può essere collaterale. I giornalisti devono avere ben chiaro l’obiettivo finale dell’indipendenza.
Purtroppo, in Italia il panorama complessivo non è dei migliori. Talvolta è imbarazzante.
L’indipendenza è un principio da preservare anche rispetto alla stessa opinione pubblica. Viviamo in un mondo in cui i mezzi sono cambiati, un mondo in cui capire l’orientamento del pubblico è molto più facile. Ma il giornalismo non deve farsi condizionare.